• L’ultimo degli scarrozzanti. Quattro cronache per Tiezzi e Lombardi

    1.

    L’attore arriva dalla platea con una vecchia valigia in mano. Si arrampica sul palcoscenico ancora chiuso dal sipario, si volta verso il pubblico con un sorriso a denti stretti. Frac e scarpe da tennis, bombetta e guanti bianchi, e il viso truccato di rosso e di bianco, potrebbe sembrare un giovane Beniamino Maggio mentre improvvisa una gag da varietà con quel sipario che si apre e richiude da solo. 

    Dietro l’attende il siparietto di un teatrino minimo, montato su una pedana al centro della scena vuota. Ma dietro ancora, sul fondo, si intravedono un neon verticale e il panneggio di un altro sipario rosso, che toccano la memoria degli spettatori con l’evidente richiamo sentimentale a passati spettacoli non dimenticati, da Punto di rottura a Genet a Tangeri. Come a rivendicare, da parte di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, protagonista e regista di questo Edipus, la continuità di una ispirazione ideale, di una tensione per un teatro non omologato, che si sono conservate al di là dei mutamenti di pelle. E c’è del resto anche la suggestione del nome a ricollegare quel loro Carrozzone di un tempo alla trilogia degli Scarrozzanti che in quegli stessi anni settanta Giovanni Testori andava componendo per Franco Parenti.

    Si parla di attori. Di un teatro povero trasmesso geneticamente da una generazione all’altra, e quasi iscritto nei loro corpi. Guitti girovaghi dalle nobili ambizioni. Tirati verso la tragedia. Amleto e Macbeth, anzi Ambleto e Macbetto per restare agli altri due poli della trilogia testoriana, perché quei personaggi tragici bisogna poi farli propri, calarli nella propria realtà e nelle proprie vicende. Sdegnando i rivistaroli, quell’altro teatro che gli era invece fratello, nella comune matrice popolare (ah la Masiero, celebrata da Testori in uno dei suoi primi libri, La Gilda del Mac Mahon). Un teatro votato alla scomparsa, e già guardato con nostalgia, mentre si consuma il tradimento dei compagni che avevano il nome in ditta. Lo scarrozzante è rimasto solo, con un invisibile ‘ragazzo’ cui fa appello per smorzare una musica o cambiare una luce. Scappato il primo attore, per più facili e remunerativi successi. Scappata la prima attrice, andata a maritarsi con un mobiliere di Meda. Tocca a lui solo prendere anche il loro posto nella tragedia che non si può più fare. 

    Eccolo infatti apparire nei paramenti liturgici del re Laio, al levarsi del sipario su quel teatrino dipinto di blu. Seduto su un trono che è anche uno scranno beckettiano. Tiara e scettro, simboli dell’unificazione dei poteri e delle ideologie, giacché egli si proclama re e pontifex, oltre che Marxo e dio in terra. Con morboso compiacimento segue le torture inflitte agli spregiatori del suo totalitario governo. A ogni testa che cade fa scongiuri e la trombetta con le mani. Quando attacca a raccontare del figlio, non può trattenersi da un passo di ballo, tant che l’era piscinin.

    Sofocle e Milly. E Testori con quella sua lingua d’invenzione che costituisce la ricchezza di questo teatro (cioè una lingua per il teatro, non quotidiana, non televisiva, come per altri versi sperimentava Pasolini). Alta e solenne all’apparenza, con quel risuonare di arcaismi e francesismi. Attraversata in realtà da una forte carica realistica che si nutre di cadenze dialettali di impronta lombarda. Col suo bel contrappunto figurativo di caravaggeschi e pittori della realtà, dal Moroni al Ceruti, secondo la lezione di Longhi. Lingua materna, anche nella deformazione che la porta a oscillare fra la comicità e l’invettiva violenta. Come dice la pagina di Gadda inserita da Tiezzi nel finale – verde Lombardia, i morti di fame dove andranno a sbattere? il grembo della mamma non può riprenderli indietro.

    In questo mistero buffo, o tragedia buffa, è la maestria interpretativa di Sandro Lombardi a scandire il passaggio attraverso i diversi toni dello spettacolo, appunto come numeri di un varietà. Levàti i panni regali, che restano distesi sul letto che riempie di traverso il teatrino, dalla valigia dell’attore escono una veste bianca e una parrucca. Il costume della baltracca Iocasta, bersaglio di feroci insulti. E quando anche questo abito cade, non c’è più bisogno di costume perché l’attore si faccia Edipo. Un velo rosso buttato sulla testa basta per introdurre il Dioniso che gli ordina va e vendicati. L’identificazione dell’attore con le sue molteplici parti è ormai diventata straziante verità.

    Così sarà una duplice figura paterna quel simulacro di Laio e del primo attore, che verrà ridotto a scheletro ma da sfregiare ancora prima, possedendolo ed evirandolo, perché l’Edipo possa completare l’operazione sua. E Iocasta, madre e attrice amata, si identificherà con due code di volpe da inchiodare a una croce che l’Edipo si caricherà in spalla per una personale via crucis; ma che subirà anche l’orgasmo dell’attore, steso per terra fra ululati e lamenti. 

    E adesso? si chiede lei, la mater pelliccera, la renarda argentata‚ come la chiama. Coparmi? Non ci pensa proprio, nessuno m’aveva mai ciapato come l’Edipo. Anzi nella fantasia ormai febbrile, potrebbero vivere felici e contenti così, in un letto di fiori gialli. Un anno d’amore consacrato dalla voce di Mina. Via i costumi inutili, da cacciare in una botola come faceva padre Ubu. Se non ci pensasse la lex, quella sociale come quella del teatro, a rimettere in ordine le cose, cioè a riconsegnare il trasgressore della norma al suo destino di disperato. Fine della tragedia per adesso e per sempre.

    L’attore è di nuovo solo. Il sipario si è di nuovo chiuso, dietro l’ultima gag. Simile a  un eroe di Bernhard, il guitto ha mostrato il suo doppio volto. Per suo tramite il teatro ci parla di qualcos’altro, qualcosa che tenta di venir fuori attraverso la degradazione dell’arte, la smorfia del clown, la deformazione linguistica. Qualcosa che non si può esprimere, ma che a volte per un momento sembra di toccare da vicino. Come la preghiera più estrema cercata dall’ultimo Testori nella bestemmia, con la medesima voglia di resistere nello scandalo e nella rabbia di un altro maestro.

    2.

    “Ma questa notte voglio farti le pazzie” canta Gianna Nannini mentre l’attore crolla sul palco del teatrino: un po’ per lo sfinimento, un po’ perché così vuole la parte di cui ha indosso il costume, un gran kimono dai ricami fastosi. Non è Turandot o Butterfly, anche se il suo Pinkerton l’ha evocato più di una volta questa regina d’oriente che intona il pianto funebre sul cadavere del suo uomo e sulla sua vita sgangherata. Cleopatra, anzi Cleopatràs, come vuole il titolo dell’operina di Testori, il primo dei Tre lai scritti nell’ultimo scorcio di vita dell’autore lombardo e pubblicati postumi. Tanto per aggiungere un altro po’ di esotico a questo Egitto di collocazione incerta. Come la palma proiettata sul fondale dai colori mutevoli. O quel trono “di stile egizian-canturese” posto in mezzo alla scena, unico arredo, con due ciuffi dorati a far da ali alla spalliera.

    In realtà si sa bene dove siamo, altro che Egitto o Butterfly. L’aspide avvoltolato sul cappello sarà piuttosto la creazione di uno stilista di paese. Siamo dalle parti della Brianza, fra Como e Lecco e i due rami del lago più romanzesco di tutti. In quel viluppo di paesi tutti in igo e ago e ate, tutti col loro teatrino però. Gente che ha studiato, e che lavora sodo. Siamo in quella Lombardia profonda tanto cara a Testori, ultimo o penultimo della stirpe dei “gran lombardi”. Basta chiudere gli occhi per sentire la voce di qualche “bella di Lodi”, in questo odore di panettone e torrone di Cremona e il chiasso rassicurante delle macchine giù nella fabbrichetta. E lei, anzi lui, l’attore, è a sua volta l’ultimo o il penultimo di quegli Scarrozzanti che andavano portando per queste ‘piazze’ un’arte teatrale rabberciata ma non disprezzabile. Abbandonato ormai dai compagni, immaginate dal pubblico. Solo, come nell’Edipus appena smontato.

    Non c’è la sorpresa di quel bellissimo spettacolo, in questa nuova prova di Sandro Lombardi intorno al teatro di Testori. Non c’è il piacere della scoperta di una adesione sorprendente. Ma non è detto sia un limite, come forse qualcuno vorrebbe credere. Anzi questo tornare sugli stessi passi, e la stessa riduzione dell’impianto spettacolare “in forma di concerto”, gonfiano l’impossibilità di sfuggire a quel mondo, come a un sentimento di cui si avverte la necessità a dispetto dell’altro che finge svagatezza. Eccolo dunque di nuovo l’attore Sandro Lombardi, con l’abito nero e i guanti bianchi da fine dicitore e il trucco pesante del varietà – con quelle sospensioni soprattutto, quel guardarsi intorno smarrito alla ricerca di un conforto o di un suggeritore, quel rivolgersi a un ‘ragazzo’ invisibile in quinta, forse già fuggito, prima di tuffarsi di nuovo nel gran ballo delle parole. In una prova interpretativa talmente emozionante che la regia di Federico Tiezzi questa volta si tira da parte, si ritaglia un ruolo di ‘cura’. E Giancarlo Cardini che sta di fronte a lui in veste di maestro concertatore sembra pure imporsi il silenzio, a tratti, fra uno scoppio dei Gipsy Kings e le musiche cantabili che fanno il verso a motivi d’epoca.

    Perché canta e danza l’attore, come si canta quando nessuno più ti ascolta. Cambiando le parole a misura dei propri sentimenti. O dello sberleffo ai propri sentimenti. E intanto, di fronte all’immagine mentale della morte, lascia esplodere il proprio amore per la vita, quella concretissima fatta di terra e cibo e sesso, fatta di memoria più di ogni altra cosa. E il linguaggio sembra non aver più limiti, nella dilatazione delle sue possibilità espressive, prima del silenzio nel grande buco nero.

    3.  

    Il busto dell’attore sbuca da una pedana di legno che forma una ripida collinetta in un deserto di sabbia e cactus. L’Erodiàs di Giovanni Testori è diventata una Winnie beckettiana nella messinscena degli ultimi Due lai realizzata da Federico Tiezzi. Piantato lì sul palco, inquadrato in un festone di lucine da fiera, racconta i suoi “giorni felici” mentre accenna qualche nota su un piccolo pianoforte o si aggiusta il diadema posto sulla parrucca di lunghi capelli che poi strapperà via. Si racconta davanti alla testa tagliata del profeta Jokanàan, il Battista, che giace su un piatto. Lei lo chiama familiarmente Giuan. La testa bianca è visibilmente di cartapesta, perché mai ci si dimentica che qui siamo su un palcoscenico, magari dei più guitti, che questa estrema evocazione passa attraverso la voce e il corpo di un attore.

    Il corpo e la voce sono quelli di Sandro Lombardi, l’interprete con cui ormai meglio si identifica sulla scena lo scrittore lombardo, giunto qui a una prova altissima. Dopo lo straordinario Edipus che siglava un incontro forse imprevedibile, era venuto Cleopatràs, che attingeva al primo tratto del trittico scritto da Testori sull’orlo della morte, durante l’ultima malattia. Tre lamenti funebri, questi tre lai, tre figure femminili di fronte al mistero della morte che si incarna nel corpo dell’uomo che più hanno amato. E la distanza visibile che separa le tre donne, Cleopatra, Erodiade e Maria di Nazareth, è anche la distanza che consente di guardare con sguardi diversi alla morte e all’amore.

    In Erodiàs il compianto si riempie ancora di tutto lo spirito beffardo della scrittura testoriana, dell’invenzione linguistica con cui ricrea una contaminatissima parlata lombarda. Una lingua della carne, anzi della “carnascia nostra”. Tutto il testo è immerso in una carnalità dove sesso e morte si congiungono. Com’eri bello tu! La prima apparizione del profeta è già un delirio di erotica attrazione per quel corpo nudo, appena coperto giusto lì in tondo. Lurido santone. Con quell’odore di animale selvatico e insieme la tenerezza della carne di un bambino. Miscela imprendibile ed esplosiva. Giacché quello di Erodiade è l’amore inappagato, l’espressione di un desiderio insoddisfatto, pacato soltanto nella morte dell’altro.

    Una lingua della carne che la drammaturgia di Sandro Lombardi contamina ancor di più, ripescando nell’universo testoriano la canzone “Miissimo di me” dell’Ambleto o quel canto popolare lombardo, “Quando nel ciel spunta la prima stella”, che fu spunto per una memorabile variazione dello scrittore. E a un contaminato panteon musicale, dove compaiono anche Vanoni e Mina, appartiene l’inserto della voce della “supremissima Becker”, naturalmente Josephine, e quel suo “Haba naguila” che l’interprete fa suo a più riprese.

    Cala un sipario dorato a coprire la scena. Propiziatorio oggetto che Tiezzi e Lombardi si portano dietro dai tempi di Genet a Tangeri e unisce cielo e terra come un fondale del Beato Angelico. Altri più sottili fili intreccia il regista nel suo lavoro, come quel giardiniere che rastrella all’inizio la sabbia, rubato al recente studio sull’Amleto – e giacerà poi disteso con il costato aperto del Cristo morto su cui la Mater strangosciàs fa il suo lamento.

    Qui anche la religiosità blasfema di Testori deve cedere il passo a un sentimento più composto. La lingua non si scosta dal quel tono basso e popolare che smussa l’enfasi della tragedia, la riporta sempre a quelle assi di palcoscenico su cui l’attore recita la sua parte. Ma è il tono quotidiano della madre, della mammetta, davanti al figlio rimasto bambino. Anche l’attore rinuncia a un po’ dei suoi invisibili lustrini, a quella magistrale partitura di gesti e di sospiri, di abbandoni e di furori che avevano accompagnato il frammentato monologo di Erodiàs, spezzato dai rapidi cambi di luce. Ora l’attore se ne sta semplicemente seduto, in camicia, in una immobilità che è necessità, non è frutto di una costrizione. Pianto e riso hanno davvero il confine incerto in questa sua rielaborazione di un dolore pacato che coincide con una vita, dove si proiettano memorie di campagne padane.

    Per arrivare al momento di commozione vera racchiuso in quel che decide una vita e può anche richiamare il di Molly Bloom al termine dell’odissea joyciana. Un sì che non è sfida ma ubbidienza al proprio destino, al destino umano. Più rischioso certo che la facile scelta del negarsi.

    “Quando nel ciel spunta la prima stella ricordati di me, bambina bella”. L’attore è sparito nell’abbraccio del sipario. Sulla scena il giardiniere ha ripreso il suo lavoro, al ritmo di una canzone dei Queen. Sul fondo si apre un’immagine alla Pierre e Gilles, una madonna da luna park incorniciata in una corona di fiori, con l’aureola al neon e il sacro cuore alla cintura. Finale incandescente in cui brucia l’emozione di questo bellissimo spettacolo.

    4.

    Sono rimasti in pochi. Il capocomico e la prima attrice, con il nome in ditta ma senza le sue gherls e i suoi boys di una volta, di quando entrava in scena d’in cima una scala, anzi costretta a sdoppiarsi per fare la parte anche dell’attrice giovane. Il generico e il caratterista che pure deve coprire più ruoli, comunque frustrato nei suoi tentativi di mettersi in mostra. A giocare la parte dell’attor giovane è rimasto il macchinista che intanto inchioda le bare di legno grezzo da usare per scenografia, mangia nella gavetta da muratore, scherza nel suo dialetto siciliano, danza il suo desiderio di essere Fred Astaire. Ma anche così come si sono ridotti, non rinunciano al loro teatro, gli Scarrozzanti.

    Inzipit la tragedia di Amleto. L’Ambleto anzi, come vuole la lingua di Testori, quell’inventivo impasto di dialettalità lombarda in cui si ritrovano arcaismi e voci di altre parlate, lingua tutt’altro che quotidiana insomma, lingua teatrale che col suo mescolare alto e basso può ricordare da lontano l’operazione compiuta dal Ruzante. Nel lento disvelamento del teatro di Testori che portano avanti da un po’ di anni, dopo lo sprofondare nella solitudine degli ultimi “lai”, Tiezzi e Lombardi sono risaliti ora al primo tratto della trilogia con cui negli anni Settanta il gran lombardo riguardava la propria vocazione teatrale con gli occhi di poveri guitti girovaghi tirati verso la tragedia.

    Eccolo qui di nuovo l’attore Sandro Lombardi, con l’abito da sera e il bastone da fine dicitore, davanti al duplice sipario rosso e dorato che è quasi un marchio della ditta – e sollevandosi mostrerà poi la giostra che già girava nel lontano Hamletmaschine, riapparsa anche nelle Scene di Amleto, quasi a chiudere il cerchio di questo amletico percorso e per la commozione degli spettatori da più tempo partecipi della loro avventura. Eccolo con quelle sospensioni, con quello stupore che poi si scioglie nel gran ballo delle parole. All’inizio, al tempo cioè del primo Edipus, poteva apparire sorprendente l’adesione dell’attore toscano alla dimensione lombarda in cui Testori radicava i suoi personaggi. Ma leggere Testori in una chiave regionale può essere fuorviante altrettanto quanto il trascurarne la forte spinta autobiografica che si traduce in una geografia di luoghi, di colori, di suoni. Elsinore o Lomazzo non importa, tanto fa lo stesso. Quel che conta è la geografia dell’anima, la geografia dei sentimenti.

    Sorprendente è semmai aggettivo che potremmo riservare alla prova di Iaia Forte, sottratta ai napoletaneggiamenti che hanno fin qui accompagnato la sua storia d’attrice, fra cinema e teatro, e costretta a misurarsi a sua volta con le asprezze e le ironie di questa lingua. E con lei bisogna ricordare almeno il Polonio da avanspettacolo di Massimo Verdastro, tentato dallo sciocchezzaio petrolinesco, in carattere anche lui con l’idea di una teatralità ammiccante e cialtrona, che usa il capolavoro shakespeariano come un canovaccio su cui cucire la propria storia. Fra le pieghe de L’ambleto entra l’eco del presente, o meglio di quel presente del 1972 evocato da ‘zobillanti’ e contestatori, da un clima di anarchia. E la regia di Federico Tiezzi molto lima e qualcosa aggiusta, per ammorbidire la trama ideologica e dare invece vigore al gioco dei commedianti.

    Ma ecco che un po’ alla volta prendono gusto all’opera. Lentamente l’attore si lascia possedere dall’invisibile spettro paterno, non per cercare vendette ma assai di più per interrogarsi sul senso dell’esistenza, di una vita che immagina di percorrere a ritroso sino ad annullarsi in uno spruzzo di sperma, tanto che poi un compagno deve richiamarlo in sé. Ecco che anche Iaia Forte ci regala uno straordinario pezzo di bravura nei panni di questa Lofelia, improvvisamente non più derisoria o derisibile, che ha indossato un inutile velo da sposa e sente la mente e la vita sfuggirle via, e danza il suo valzer di morte fino a restare inerte come una bambola rotta. Non hanno mai letto Zeami, gli Scarrozzanti, ma sanno per istinto il segreto dell’attore capace di passare dal registro più basso a quello alto, dalla comicità alla commozione. E quando il pathos sembra ormai insopportabile, eccoli tutti quanti tornare allo sberleffo di un finale in musica, duellando su un’aria verdiana davanti alla giostra che si è messa a girare contro il fondale azzurro. Sulla quale si ritrovano a girare anche loro. Cadono dal cielo fiori che vanno a piantarsi sul palco come lame. Rossi, come il sipario che si chiude su quell’immagine.

    (1993-2001)

    © Gianni Manzella