• Il viaggio nella città di Sasha Waltz

    Ora che il centro di Berlino si è spostato più a est, dov’era sempre stato, fra l’ampio boulevard Unter den Linden e la tristezza della moderna Alexanderplatz, ci si accorge che la Schaubühne è davvero fuori mano. Ci vogliono intrecci ferroviari di U-Bahn e S-Bahn per raggiungerla. Ma già allora, quando ci si veniva per i grandi spettacoli di Peter Stein, era una bella passeggiata scendere giù per Kurfürstendamm fino al teatro “am Lehniner Platz”. E tuttavia la Schaubühne resta un punto d’osservazione indispensabile della vita teatrale berlinese. Dalla distanza ha tratto non marginalità ma una sorta di signorile distacco. È forse il teatro più giovane della città, e sembra già una vecchia signora, il pubblico è lo stesso che potresti incontrare all’Odéon a Parigi o all’Argentina di Roma. E sembra diventato bello anche l’edificio degli anni Venti, l’ex cinema Universum, che ti accoglie con una superficie ricurva di mattoni rossi (nell’edificio gemello, di fronte, ci hanno fatto un bowling e un ristorante italiano, i conti tornano).

    Tornano gli attori, alla Schaubühne. L’idea di un teatro fondato sull’ensemble era stata cruciale, agli inizi dell’era Stein, potendo realmente contare su un nucleo di interpreti straordinari. Il principio ispiratore del collettivo è di nuovo apertamente rivendicato. Ma arrivano anche nuovi registi e nuovi autori. Per uscire dall’immobilità, il teatro si è affidato a una nuova direzione, due artisti trentenni, il regista Thomas Ostermeier e la coreografa Sasha Waltz. E il cambio di passo si è fatto subito sentire. Via i classici che ci si era abituati a considerare nostri contemporanei e dentro la contemporaneità anagrafica, la nuova drammaturgia che sta fiorendo un po’ ovunque, a partire dall’Inghilterra dove il mito dei giovani arrabbiati viene sempre buono. Nomi ormai affermati come i britannici Mark Ravenhill e Sarah Kane, che proprio Ostermeier ha appena messo in scena, insieme ad altri che a noi dicono poco. Avrà anche ragione chi lamenta la scarsa attenzione dei nostri palcoscenici per questi nuovi autori. Ma viene anche difficile entusiasmarsi per testi piuttosto noiosi alla lettura, per quanto votati agli eccessi e alla violenza pulp, e su temi quasi sempre poco interessanti. Di cui soprattutto sembra importare pochissimo agli stessi registi che li scelgono, nemmeno motivati da una scelta ideologica.

    Ha un viso piccolo e continuamente in movimento Sasha Waltz. Capelli lisci a frangetta e labbra che si mordono mentre sorride. E l’abito leggero accentua l’aria da adolescente di questa trentenne (è nata nel 1963 a Karlsruhe), non infrequente in una generazione che tiene a bada le proprie insicurezze sotto un’immagine di positivo attivismo. Niente a che vedere con la severità di Pina Bausch e delle altre signore del Tanztheater. Potrebbe semmai ricordare la ragazzaccia fiamminga Anne Teresa De Keersmaeker, cui deve qualcosa anche la sua danza, frutto di una formazione eclettica fra Amsterdam e New York.

    L’universo deliziosamente infantile di Sasha Waltz l’avevamo incontrato qualche anno fa, con il primo tratto di quella trilogia Travelogue che l’aveva rivelata all’esordio con una sua compagnia. La giovane coreografa tedesca danzava con i suoi “ospiti” multinazionali (Sasha Waltz & Guests si chiamava il suo ensemble insediato a Berlino) la vita di un interno domestico popolato da un gruppo ancor più giovanile. Con la felicità espressiva e l’immediatezza facilmente accattivanti della giovinezza, sostenute dalle belle musiche meticce di Tristan Honsinger.

    Efficace commistione di viaggio (travel) e dialogo, il titolo rivela subito il desiderio di comunicazione che è nascosto dietro tanto bisogno di spostamento, di essere altrove, testimoniato dalla stessa composizione multinazionale del gruppo di danzatori-coreografi. Il viaggio in questo caso sta tutto dentro i confini di una cucina. Luogo di contatti e metafora della vita, come nella kitchen di Banana Yoshimoto – il primo  nome che viene in mente, sarà la suggestione della giovane donna giapponese che si agita in piedi sul frigorifero, all’inizio, in un flusso di parole incomprensibili, o piuttosto quel comune guardare a una solitudine giovanile. Uno alla volta entrano gli altri abitanti di quell’angolo di casa, due coppie di ragazzi. Abiti qualsiasi, jeans magliette vestiti corti. Corpi qualsiasi, non belli, come prescrive un valore ormai acquisito dalla nuova danza.

    Oltre al piccolo frigorifero c’è solo un tavolo in scena, con qualche sedia, inquadrato fra due pareti sghembe ricoperte da una tappezzeria a grosse strisce di un colore squallidino fra il giallo spento e il verde chiaro che le luci possono però annegare in buie atmosfere notturne o nel rosso del sogno a occhi aperti. Attorno al tavolo si svolge gran parte dell’azione, scandita dalle entrate e dalle uscite a ripetizione per le due porte affiancate sul fondo che a un certo punto diventano anche il tramite di un frenetico balletto di aperture e chiusure.

    Sono momenti di una quotidianità resa percepibile anche da oggetti e rumori concreti. Il trillo di un telefono. Una macchina da cucire che provoca orgasmi da cucitura. Piatti e bottiglie. Si respira vitalità giovanile puntellata da una nevrosi neppure sotterranea. I gesti diventano spesso ossessivamente ripetitivi. Il ritmo è sempre sostenuto, fino a toccare la comica slapstick. Una latente violenza vien fuori dalle crepe dei comportamenti. Quel girarsi di scatto sulle sedie, quel battere i pugni sul tavolo. Anche se poi prevale sovente la felicità espressiva di una danza di forte immediatezza ma per niente ingenua, dove il divertimento si coniuga agli struggimenti.

    Ma la quotidianità di Twenty to Eight è passata al vaglio di un immaginario cinematografico che fa dei cinque protagonisti quasi degli eroi da film. O così vorrebbero sembrare, come guardandosi in uno specchio dove sono anche gli altri. E le musiche composte dal violoncellista Tristan Honsinger accompagnano le loro azioni minimali come una vera e propria colonna sonora, in cui si inseriscono momenti di silenzio che per contrasto risaltano come altrettante sottolineature. Così anche l’esibita componente erotica diventa una sorta di rappresentazione, un gioco di seduzioni incrociate che non porta da nessuna parte. Incontri ravvicinati di corpi che si attraggono e si respingono a vicenda. Gambe che si intrecciano come in un tango. Abiti che si aprono per un attimo, nel piacere fuggevole di mostrarsi. Scoprire per un attimo qualcosa di sé. Per poi fuggire di nuovo a rifugiarsi in una più rassicurante sospensione dei sentimenti.

    I due spettacoli realizzati successivamente hanno il valore di una consacrazione, per la giovane coreografa, e allo stesso tempo della verifica di una maturità da conquistare, forse cercata anche nella rinuncia ad essere interprete di questi suoi nuovi lavori. Non a caso un confronto fra generazioni diverse sembra immediatamente visibile in Allee der Kosmonauten. Siamo ancora all’interno di un nido domestico, anche se reso più astratto dalla rarefazione dello spazio davanti alla parete uniforme che chiude lo sfondo. Solo un divano occupa la scena, e anche questo è destinato poi a essere messo da parte per lasciare campo libero alle azioni che si sviluppano fra i membri di un composito gruppo familiare, di tre diverse età. Ma i “vecchi” sono visti in realtà con gli occhi dei ragazzi, in una sorta di lente deformante. Quasi che una famiglia Addams sia scivolata dentro l’universo di Barbie Girl. Una madre ciabattona che danza abbracciata all’aspirapolvere. Un padre grigio come il vestito che indossa, interessato a quanto pare soprattutto alla lettura del giornale ma debitamente autoritario quando serve. La sorella maggiore, sempre in mutande, si abbandona alle pesanti effusioni del suo compagno, mentre alla ragazzina che si annoia un po’ non resta che provare il gusto di brividi solitari.

    Tutto avviene lì dentro. In maniera caotica, con una dose di ironia e di monelleria che si combinano nel trio delle tre donne chinate a testa in giù, di spalle, le gonne tirate su a mostrare quel che c’è da mostrare. Il mondo esterno appare soltanto attraverso gruppi di monitor accostati a comporre le immagini come in certi spettacoli di Giorgio Barberio Corsetti. Strade e palazzi senza voce, treni e giardinetti, sopraffatti anch’essi da un rumore di fondo che non risparmia le poche note mozartiane di Papageno che emergono per un brevissimo momento. E i suoni rumoristici diventano poi un frenetico cambiare di canali radiofonici che fa da metronomo ai gesti dei sei danzatori, impegnati in un vano tentativo di mettere ordine.

    In Zweiland la grande parete grigio di fondo diventa il limite di un marciapiede stradale. L’interno si è rovesciato in un esterno, finalmente. E un salto espressivo si sente, anche se l’universo giovanile resta il riferimento privilegiato nel gioco delle tre coppie, fatto di incontri e di scontri, di baci e di schiaffi, di seduzioni sfacciate e di rifiuti. Tirano su baracche, dipingono di blu la parete, nel silenzio rotto solo dai loro passi o dalle musiche che essi stessi cantano. Semmai è qui più visibile la forza della metà femminile rispetto a quella maschile, insicura e pasticciona, con cui l’altra è in perenne conflitto, in questa parabola su una “terra duplice” in cui non si fatica a leggere un richiamo alle due Germanie dell’est e dell’ovest. E comunque Zweiland regala almeno un paio di immagini non dimenticabili, come quella della giovane donna che si divincola contro il muro tenuta legata per i capelli. O quella dell’uomo in tutù che porta sulle spalle una fisarmonica, suonata da un altro in un abbraccio. Certo qui è più forte l’imprinting Bausch, e forse non può essere diversamente per un’artista della sua generazione, lo si è verificato anche da noi. Crescere costa fatica. Viene il giorno in cui la bellezza giovanile si offusca, e qualcuno può chiedere: adesso vediamo cosa sapete fare.

    Un groviglio di corpi nudi incombe, da un cartellone pubblicitario, sull’ingresso della Schaubühne. Ritroviamo quell’immagine nel momento più folgorante dello spettacolo con cui si è presentata Sasha Waltz nella nuova veste di condirettrice del teatro, intitolato appunto Körper. Schiacciati dietro il vetro di una finestra aperta nella parete alzata di traverso allo spazio scenico, i danzatori si muovono con un moto rallentato, scivolando lenti su una superficie verticale come fossero a terra. Il corpo viene coniugato in tante possibili forme. I corpi anzi, al plurale. Cioè con tutte le possibili differenze. Corpi in vendita, con il valore commerciale dei vari organi in evidenza. Corpi che si uniscono ad altri corpi per formare esseri doppi, mitologici centauri. Corpi che si abbandonano alle composizioni della danza, sulla parete crollata a formare un piano inclinato, lungo la quale si era visto anche scendere uno sciatore. È un vortice di immagini che si creano e si disfano, incrociando ironia e sensualità. Per la giovane coreografa che avevamo visto attingere soprattutto a temi giovanili, nei lavori passati, è un bel salto verso la maturità, forse imposto dalla nuova responsabilità.

    (1996-2000)

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