• Teatri di guerra

    1.

    Teatro di guerra era stato, anni fa, il titolo di un bel film di Mario Martone: a memoria il tentativo più esplicito di calare le vicende quotidiane in una storia più ampia, e in un preciso momento storico, segnato da un conflitto arrivato alle porte di casa. Erano gli anni della guerra in Bosnia. Guerra vera e vicina, a differenza di altre lontane o guerreggiate soltanto come minaccia, guerra fredda si diceva. Cominciando intanto a mettere in discussione proprio il significato delle parole, giacché “teatro di guerra” è ancora nel linguaggio giornalistico il luogo delle operazioni militari: e l’impiego di un termine così ‘spettacolare’ avrà pure qualche ragione.

    Quel che ancora ci appare significativo è il singolare modo di produzione, per così dire, del film di Martone, che è regista teatrale prima che di cinema, va ricordato. Giacché il tema di Teatro di guerra è presto detto, vi si raccontano le vicende di un gruppo di giovani artisti di teatro animati dall’idea di allestire uno spettacolo da portare a Sarajevo assediata, in segno di solidarietà. (Non raccontavano le cronache che Susan Sontag era stata là, chiusa in un teatro, sotto le bombe?). Un gruppo di giovani animato da eroiche velleità come tanti presenti sulla scena sperimentale italiana. Privo di risorse. Vogliono fare i Sette contro Tebe, testo a suo modo paradigmatico della situazione storica del momento, dibattendo lo scontro fra fratelli in armi che dilania la città. Ma qui Martone introduce uno scarto. Lo spettacolo teatrale di cui nel film si segue la faticosa gestazione, viene realizzato realmente durante le riprese del film. Le prove cui si assiste sono quelle vere condotte dagli attori in uno degli spazi storici della scena alternativa napoletana, nei vicoli dei Quartieri spagnoli. Gli interpreti sono partecipi di una duplice finzione. E a differenza di quel che avviene nella finzione cinematografica, alla fine quei Sette contro Tebe vanno in scena davvero, in teatro.

    Di quello spettacolo però non ci sono state altre repliche. Cancellato dalla normale programmazione, pur potendo contare su un cast di attori riconosciuti e la firma di uno dei registi più noti della sua generazione. E al di là delle distorsioni del sistema teatrale nazionale, così ricco di invenzioni sprecate, questa cancellazione sembra dirla lunga sul peso specifico del teatro nella società contemporanea. Della sua necessità, vorremmo dire.

    Il teatro ci appare qui in tutta la sua fragilità e marginalità. I suoi cento o mille spettatori, donne e uomini che si ostinano a cercare ‘dal vivo’ un contatto con l’altro, sono nulla in confronto alla platea televisiva di qualsiasi talk show. Ininfluenti per statistiche e sondaggi. Non stupisce che il potere mediatico non si faccia scrupolo di aggredire prima e avvilire poi il più grande artista di teatro del nostro paese, com’è avvenuto a Siracusa a Luca Ronconi, reo di aver cercato di dare attualità a una commedia di Aristofane con i volti deformati degli intoccabili potenti di turno.

    Quale guerra può raccontarci il teatro?

    In quale ‘teatro di guerra’ può portarci, noi che abbiamo fatto abitudine ai lampi della contraerea in diretta sullo schermo televisivo e guardiamo distratti gli effetti dei bombardamenti?

    E se pure ne fosse capace, che importa del teatro mentre la gente soffre e muore?

     

    2.

    (Semmai, , dove cadevano le bombe davvero, il desiderio di teatro poteva esprimere il bisogno opposto di uscire da uno stato di guerra, di tornare a una vita normale. Ha ragione Biljana Srbljanovic, la guerra non è una condizione naturale dello spirito: dilania, uccide a rate. Ma di lei non vorrei parlare).

     

    3.

    Memoria, può essere.

    Come il livido delirante circo di Alice underground che il cileno Mauricio Celedon ha montato sotto il classico tendone per raccontare un bel po’ di storia, umana e politica e sociale, del suo paese. O far sì che lo spettatore posto di fronte all’azione si costruisca il proprio racconto. Lo fa con le armi di una teatralità immediata e popolare, dell’irruenza agit-prop e della commozione ben temperata, con stile epico brechtiano e un gusto per l’eccesso che può risultare benvenuto di fronte alla concettualità presuntuosetta di tanto teatro d’oggi. L’Alice del titolo è proprio quella di Lewis Carroll, fatta resuscitare, cioè letteralmente tirata fuori da sottoterra, per far da guida nella discesa agli inferi della storia, quella che si dovrebbe scrivere con l’iniziale maiuscola. Storia trapassata, che vista da questa prospettiva sotterranea appare assai poco meravigliosa. Dove si mescolano un Bianco coniglio in abito da sera e una Regina cattiva in costume e con movenze da teatro balinese, ma anche Marx e Lenin e il comandante Che Guevara accompagnato dalla sua celebre canzone, tutti più o meno realisticamente rappresentati, quanto basta almeno per una immediata riconoscibilità, ma con il volto imbiancato e una traccia nera di trucco clownesco che proietta i personaggi storici nel clima crudelmente farsesco di una apocalisse alla Heiner Müller o alla Kantor. E da ultimo viene il presidente Allende che al microfono arringa il popolo sulle note del “Pueblo unido jamas serà vencido” e muore imbracciando un’arma invisibile, a chiudere un ciclo secolare di illusioni e di sconfitte. Ma non finisce qui, ci mancherebbe. L’ultimo quadro dello spettacolo è aperto a un altro finale o a un altro inizio. I rivoluzionari della storia e una schiera di Alici marciano insieme sotto una pioggia battente che lava i loro visi e trasforma la terra in fango. Sarà forse una pioggia di lacrime ma anche queste possono servire a trasformare, e al di là dello specchio delle illusioni c’è un mondo da inventare.

     

    4.

    Non è sorprendente invece il fatto che Martone avesse scelto allora la tragedia di Eschilo. Non solo per l’attualità del tema. È proprio che quel teatro, il teatro dei greci, conserva malgrado tutto l’impronta di un’epoca in cui era per davvero rito civile di una comunità, come ancora può sentire chi soltanto siede sulle gradinate di uno di quegli antichi spazi all’aperto. Non sappiamo quali macchinerie usasse, non conosciamo le sue musiche e le sue danze, né l’arte dei suoi attori, e tuttavia percepiamo l’eco della partecipazione politica che quel teatro sapeva creare.

    Giacché non c’erano solo gli eroi in quel teatro. Edipo, Medea, Antigone, Eteocle e Polinice, Ippolito e Fedra. Questi anzi nascevano dal coro, lo strumento inventato da quei drammaturghi per saggiare la distanza del pubblico dalla scena, per coinvolgerlo nell’azione o tenerlo lontano.

    E infatti, a uno sguardo retrospettivo, quel che soprattutto torna alla memoria è il grande uso, per nulla intimidatorio, dei tragici, laddove si tratta di riflettere politicamente. O la rielaborazione contemporanea di quei loro miti.

    Si intitola Le Antigoni, come un celebre libro di George Steiner, lo spettacolo realizzato dal gruppo fiammingo TG Stan. Al plurale, per dar subito conto della molteplicità di interpretazioni e variazioni prodotte dall’eroina di Sofocle. Sono infatti due riscritture novecentesche della tragedia quelle che qui si confrontano, entrambe di lingua francese, quella di Cocteau scritta negli anni venti del secolo scorso e quella, assai più significativa, scritta da Anouilh nel mezzo della seconda guerra mondiale. Di cui porta inevitabilmente il segno.

    L’Antigone di Cocteau scivola via svelta, sulla scena nuda dove gli attori stanno seduti intorno a un grande tavolo che si trasforma anche in minuscolo palcoscenico. E’ poco più che l’occasione per ricordare la vicenda della figlia di Edipo, la sua sfida all’editto che vietava di rendere onori funebri al fratello, morto in una guerra fratricida contro la città. Due leggi si affrontano nella tragedia di Sofocle. La legge umana, contingente, di Creonte, signore della città; e quella eterna, sovrumana, che impone alla ragazza di dare sepoltura al fratello nemico. E viene in mente naturalmente l’attualità bruciante assunta dalla tragedia davanti ai morti della Baader-Meinhof, i combattenti della “frazione armata rossa”, nell’autunno tedesco degli anni di piombo, filmato da Fassbinder.

    Quel che appare subito evidente nella riscrittura di Anouilh è proprio l’ambiguità dei personaggi, e dunque il suo porsi, in qualche modo, dalla parte di Creonte. Dalla parte cioè di una ragion di stato tutt’altro che disumana. Tutto vorrebbe fuor che condannare Antigone, sarebbe pronto a ogni sotterfugio pur di salvare la ragazza. Un Creonte laico ma soprattutto soltanto uomo, di fronte all’orgoglio smisurato della figlia di Edipo. Con quel senso inumano del destino che tutto finisce per giustificare: e ammazza tuo padre, e vai a letto con tua madre.

    Ma è così “riposante” la tragedia, ci dicono le attrici e gli attori di TG Stan, un gruppo che ha rinunciato alla presenza di un regista esterno nel nome della creazione collettiva degli interpreti. Si sa che non c’è più speranza, tutto è già deciso. La tragedia di Antigone è dunque l’abbandono a un destino che appare già inscritto nel suo nome, “colei che è contro la generazione”. Una diversità che deveportarla illibata alla morte, inappagata nella sua identità sessuale. Il confronto con la sorella Ismene è illuminante (qui, in Anouilh) forse ancor più di quello con Creonte. Torna fuori la ragazzina che sentiva di non essere bella, che metteva vestiti e profumi della sorella per essere come le altre, che ha accolto l’amore come un errore nel suo destino.

    Ma chi le ha dato quel nome, ad Antigone?

    Chi le ha imposto quel destino?

    Solo alla fine, solo davanti alla morte, Antigone ha coscienza dell’insanabile vanità del destino: io non so più perché muoio, dice. E non è solo paradosso tragico.

     

    5.

    Medeamaterial, per esempio.

    Il testo richiede il naturalismo della scena, dice la nota finale dell’autore. La riva di un lago, una piscina a Beverly Hills o i bagni di una clinica psichiatrica, suggerisce Heiner Müller. Non è l’estremo sberleffo dello scrittore tedesco all’arte provvisoria dell’interprete, costretto già a misurarsi con un testo che appare a tratti impenetrabile – ma questo è un problema della messinscena, avrebbe appunto replicato Müller. È un’indicazione di metodo, e non deve essere dispiaciuta ad Anatolij Vasil’ev che in questa stagione ha proposto un’emozionante versione di Medeamaterial, la parte centrale del trittico dedicato al mito di Medea, scartando cioè il prologo e l’epilogo che ne costituiscono anche le parti più ermetiche, apocalittiche e visionarie.

    Dello spettacolo di Vasil’ev certo non si dimenticherà facilmente l’immagine finale della protagonista, Valerie Dreville, che ripete come in trance l’ultima battuta, mentre ai suoi piedi si spengono le fiamme che hanno divorato la sua veste. Corpo nudo, ferito, ormai svuotato dell’energia che l’ha sorretta fino a quel momento. Il pubblico dovrà uscire senza che lei si muova.

    Seduta a gambe larghe su uno sgabello a capo di una pedana di legno grezzo, a forma di croce, era restata a lungo immobile, nel silenzio della scena. Ed ecco che trova un foglio e comincia a leggere alcune battute, scandendo con lentezza le parole. Lo accartoccia. Cerca di far suo il suono di quelle parole che non le appartengono, di una lingua che forse non è la sua, donna barbara che dialoga con personaggi assenti. Si interrompe per spalmarsi sul viso una crema bianca su cui applica piccole garze. Dietro di lei, su uno schermo che pende alle sue spalle, appare un mare solcato dalla chiglia di una nave invisibile. E quell’acqua in movimento sembra ricondurla al suo destino, cioè dentro il ‘suo’ testo, le ‘sue’ parole. Che sono invettiva disperata, requisitoria spietata contro l’uomo che l’ha lasciata, evocazione sofferta della vicenda che è costretta a rivivere, a ripetere. La sua voce si è fatta durissima, una lama tagliente, o piuttosto un maglio che picchia le parole scandite quasi sillaba per sillaba, parole fatte di pietra.

    Il tema del tradimento che nell’epigrafe del trittico si affacciava brutalmente nell’accostamento del gesto di Medea all’immagine dei disertori impiccati ai lampioni, diventa qui il nucleo ossessivo del discorso. Ritorna più volte il ricordo del fratello, fatto a pezzi e gettato agli inseguitori per poter fuggire insieme a Giasone. L’uomo che ora l’abbandona per una sposa più giovane. Medea la traditrice dei suoi. Medea la tradita. Ed è proprio il tradimento di lui che ora le permette di vedere il suo tradimento, forse più opprimente dell’altro. Quel tradimento che vede riflesso anche nei figli, i loro simulacri, due pupazzetti incolori, finiranno sventrati nel fuoco. Se Müller leggeva nel mito un modello del colonialismo, Vasil’ev riporta Medeamaterial a una dimensione più interiore, a una storia minore o più umana, ma altrettanto politica.

    Impossibile non essere lentamente conquistati dallo sprofondare dell’interprete nel personaggio. Una vera e propria trasfigurazione che si compie attraverso il gesto e la parola, senza nessuna concessione alla psicologia. Si è aperta il vestito, si è spalmata anche il seno di quella crema bianca. Se lo rigira su una mano quel vestito impregnato del veleno che ha in corpo, dono mortale alla sposa. Se lo stringe addosso, lo lascia cadere ai suoi piedi. Fra le cosce reca un membro eretto, simulacro di maschilità da strappare da sé, da consegnare insieme al suo dono avvelenato a un fuoco che non è rigeneratore. Che lascia solo occhi di cenere.

    Se ci si è soffermati su questi lavori, pur così diversi, è perché ci sembrano il possibile paradigma di un teatro capace di parlare del presente, dentro la nostra storia, sia che ne affronti dialetticamente le contraddizioni o che affronti con ‘crudeltà’ i nodi più dolorosi dell’esperienza umana. Fra Brecht e Artaud, insomma.

     

    6.

    Nella drammaturgia contemporanea la guerra sembra piuttosto una metafora della violenza presente nella società o uno stato della coscienza che confina con l’incubo. È guerra contro un nemico interno, guerra civile, alla lettera, che dilaga dentro la città.

    Ecco per esempio Blasted, primo scandaloso successo di Sarah Kane, capofila dell’acclamata “new angry generation” inglese – prima di sprofondare nella “psicosi delle 4 e 48” preannunciata dal suo ultimo, lancinante testo. La guerra di Bosnia non è più ‘là’ ma qui, in una camera d’albergo di Leeds. Si combatte fra un giornalista canaglia e una ragazza disturbata, in un crescendo di violenze non solo verbali, che si rispecchiano poi nelle efferatezze scatenate dall’irrompere nella stanza di un soldato che evoca rappresaglie e pulizie etniche. E nel successivo Cleansed un campus universitario si trasforma in una sorta di campo di concentramento, su cui domina un medico alla Mengele appassionato di esperimenti sui corpi dei reclusi. In questo accumularsi di stupri e cadaveri, di omofagia e altri eccessi, il riferimento è piuttosto al teatro elisabettiano. Anche perché Sarah Kane usa la discesa nell’orrore come strumento di una catarsi che solo la scena può contemplare, non la realtà che le sta dietro.

     

    7.

    L’immagine di una apocalisse fiammeggiante torna ad affacciarsi in questo scorcio del terzo millennio, ributtando il nuovo secolo nel pieno delle tragedie novecentesche. Di nuovo si parla di genocidi e di crimini di guerra, e anche olocausto diventa una parola usurata. Le immagini dell’11 settembre sembrano una risposta diretta ai profeti della fine della storia, anche se quel magistrale ‘montaggio’, così spettacolare, dovrebbe pur spingere a interrogarsi sulle censure che comporta. Ma davvero “nulla sarà più come prima” come dicono?

    La ‘sensibilità apocalittica’ che aveva segnato l’esperienza artistica di alcuni dei maestri del novecento, quel sentire normale l’esplodere di forze oscure e invece fortuiti e transitori l’ordine e la pace, sembra potersi replicare oggi solo in forma derisoria – non per caso la tragedia jugoslava assume il tono della farsa nei “giochi di famiglia” di Biljana Srbljanovic. E’ piuttosto un’apocalisse grigia quella che avanza.

    Certo la guerra attraversa come un’ossessione molti spettacoli, prima e dopo la fatidica data.

     

    8.

    La guerra era stato, anni fa, il titolo di uno spettacolo di Pippo Delbono.

    C’era stato, prima, il commovente Barboni che inscenava l’incontro di Delbono con gli sbandati compagni di vagabondaggio trovati per strada, sull’orlo disperante della propria malattia. Emarginati dell’arte e della vita. Disabili e disadattati. Corpi che portavano la traccia di una sofferenza. Una umanità in guerra, che danza nella guerra, diceva allora quello spettacolo. Questa guerra prosegue quasi senza cesura ne La guerra, con lo stesso bisogno di urlare la vita che c’è anche nella marginalità, nella sofferenza, nella malattia. Ed eccoli presentarsi in scena uno alla volta i nuovi e vecchi compagni di Delbono, a un cenno dell’artefice assurto al ruolo di maestro di cerimonia. Il piccolo Bobò, vecchio uomo bambino strappato a quarant’anni di manicomio in quel di Aversa, che dirige in frac e scarpe da tennis l’orchestra di un crescendo musicale. Il giovane down che danza il sogno di essere un cantante rock, dimenando una chitarrina di gomma, prima di trasformarsi in un clown triste dal sorriso coinvolgente. L’americano Nelson dal corpo magrissimo che dorme nelle stazioni ferroviarie ma evoca spiagge californiane.

    E lui, Delbono, che corre di qua e di là in affanno che sembra un orso dei cartoon, alla ricerca di una bottiglia d’acqua con cui dissetarsi, con quei fogli sempre più stropicciati da cui legge un brano indiano o uno del Buddha. Ma basta che risuonino le parole dell’Ecclesiaste per ritrovare il filo segreto del lavoro. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire. Un tempo per la guerra e un tempo per la pace. C’è anche un tempo per ballare. E un gran ballo macabro si scatena sulla scena coinvolgendo tutta la compagnia. Il salottino borghese allestito alla meglio con un paio di poltrone e un tavolino viene sconvolto dall’orda rivoluzionaria come fosse la presa del palazzo d’inverno. Dopo nulla è più uguale a prima. Nel disordine irreversibile del palcoscenico resta la traccia entropica di quel passaggio. Con occhi nuovi e un po’ lucidi vediamo ritornare quel clown dalla testa rotonda che grida gioiosamente la sua tristezza. E Bobò, che si ritrova seduto fra i giocattoli di un perenne infanzia. A ricordarci, noi che galleggiamo nell’universo della complessità, quanto impegno richieda anche il gesto più semplice, aprire un ombrello o accendere una sigaretta. Quanto peso ci sia in una carezza.

     

    9.

    È forse questo l’unico teatro di guerra possibile. Un teatro cioè che sia capace ancora di dar voce al sentimento profondo di un conflitto che non si è spento.

     

     

    © Gianni Manzella

     

    Pubblicato in Annuario della pace. Italia / giugno 2001 – maggio 2002, a cura di Salvatore Scaglione, Asterios Editore, Trieste 2002