• Il dramma didattico degli Uccelli. Tiezzi rilegge Aristofane

    Che ci fanno qui Totò e Ninetto? Eppure sembrano loro, sono proprio loro i due appiedati viaggiatori che entrano in scena in questi Uccelli, il più anziano in groppa al giovane, a rimarcare subito una distinzione di ruoli se non ancora di potere. Giacca nera a lunghe falde e pantaloni rigati troppo corti, ombrello appeso al braccio, ma con due sbuffi di capelli che spuntano dai lati del cappello su cui sta piantato un uccellaccio nero, ad accentuare l’aspetto clownesco, mentre l’altro ha una parrucchetta impomatata di un rosso fiorentino. E se poi Lombardi e Tiezzi sottotitolano “dramma didattico”, alla maniera di Bertolt Brecht, questa loro operetta poetica nella lingua della prosa, è fin dal principio dichiarato l’orizzonte ideologico ma anche autobiografico entro cui si colloca la nuova prova.

    Se lo “scrittore di drammi” è un riferimento quasi d’obbligo per gli ex Magazzini, meno scontato è il Pasolini di Uccellacci e uccellini, di fronte alla commedia di Aristofane, al di là della suggestione immediata del titolo. Che però può aprire una catena di connessioni, giacché “only connect” resta il più solido principio ispiratore: ci stanno i vagabondi beckettiani di Aspettando Godot e Charlot e la fissità di Buster Keaton e un guizzo di Franco Franchi e i guitti del teatro all’antica italiana cari agli artefici anche via Testori. E insomma tutto ciò che serve a uno strepitoso Sandro Lombardi per costruire un altro ritratto di grande commediante.

    Tiezzi e Lombardi ci avevano dato l’anno scorso una gelida Antigone di Sofocle passata appunto al vaglio della lucida logica dimostrativa brechtiana, illuminata dai bagliori della contemporaneità nel manifestare il rifiuto della guerra che già aveva guidato il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Ora restano negli stessi paraggi, affrontando un commediografo tenuto in conto di conservatore se non di vero e proprio reazionario e però capace come pochi di maneggiare la satira. E cambia lo stile della lotta, ovviamente, all’insegna di una mescolanza di stili già sperimentata altre volte dal regista Federico Tiezzi. Kathakali e commedia dell’arte si fondono come le vesti colorate del coro degli uccelli con i copricapi armati di lunghi becchi. Non cambia invece il bisogno di leggere il presente con le armi del teatro, anche con una forte impronta generazionale. Così la parabola dei due ateniesi che stanchi di come vanno le cose quaggiù se ne scappano a fondare una nuova città fra le nuvole, a metà strada fra gli uomini e gli dèi, diventa espressione della delusione ideologica di una generazione che ha coniugato spirito di ribellione e sogno ecologico, fantasia al potere e creativa dissacrazione di ogni mitologia. Senza per ciò abdicare al rifiuto delle cose come sono. Questo ambiguamente ci dice una sfilata di bandiere rosse sulle note dell’Internazionale suonate alla viola da un musicista collocato a margine del proscenio, passaggio ripetuto di una drammaturgia sonora che intreccia Wagner e Flauto magico, il canto blues e la voce gracchiante di Antonin Artaud, uccellaccio anche lui, mentre Working class hero sfuma in Kurt Weill per dar vita a un grigio balletto meccanico in controluce.  

    La seconda parte si apre sull’immagine di fondo di una città ideale, architettura immota e vuota nella sua perfezione formale. I due protagonisti hanno acquisito un paio d’ali più decorative che altro, mentre il coro degli uccelli, che già avevano smessi i costumi colorati per indossare tute blu operaie, ora veste in grigio, sintomo forse dell’avanzare di una mutazione borghese. E infatti ecco comparire anche una serie di figure di familiari profittatori e scassacazzi, decisi a trarre qualche profitto dal nuovo ordine. Il poeta in cerca di sussidi pubblici. L’oracolista dispensatore di previsioni (o saranno magari soltanto sondaggi?). Il geometra venuto a dividere in lotti l’aria. E venditori di leggi nuove di zecca e delatori di mestiere e divinità mascherate come gli eroi del wrestling o dei cartoni animati, scese dal salotto buono per mettersi d’accordo coi nuovi arrivati, in un moltiplicarsi di personaggi che esalta il collettivo (accanto ad Alessandro Schiavo, spalla innocente e beffarda del protagonista, emergono Massimo Verdastro, Marion D’Amburgo, Marta Richeldi, Clara Galante). Ma intanto lui, il nostro utopico ecologista, col cappellone da cuoco in testa si sta già cucinando sul fuoco un paio di uccellini controrivoluzionari.

    La fabula è trasparente. Il migliore dei mondi possibili non su realizza nemmeno fra gli uccelli del cielo. Il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita sfocia nel compromesso e in una nuova tirannia dopo che “se sono magnati pure la costituzione”. Può spiacere che nel testo, che rinvigorisce la classica traduzione di Dario Del Corno, sia rimasta una sfilza di Esecestide e Aristocràte che significavano qualcosa per quegli antichi ateniesi e niente per noi. Ma non fa niente, noi sappiamo i nomi.

     

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