• Gli anni felici del teatro

    Al compagno di tanti anni felici, dice la dedica scritta con un bell’inchiostro blu sulla prima pagina. Non posso che partire da qui, per provare a dire del bellissimo libro scritto da Sandro Lombardi, da questo tratto personalissimo, giacché non può essere altrimenti che personale, e per nulla oggettiva, la risonanza di queste pagine in chi vi si sente coinvolto, fin quasi a volersi pericolosamente calare nel racconto e interagire con la memoria della voce narrante.

    Il libro si intitola Gli anni felici, lo pubblica Garzanti. Felici sono, vorrebbero essere, si sforzano di apparire, gli anni giovanili di una vocazione teatrale che si precisa momento dopo momento, cioè spettacolo dopo spettacolo – che vuol dire incontro dopo incontro, giacché ogni spettacolo non è all’epoca che la traccia di un incontro o di un viaggio. Ma che lascia sempre intravedere il confine di una linea d’ombra. O risentire una voce che invita a non abbassare mai la guardia, come il maestro di Million Dollar Baby. Poiché quella vocazione non è il frutto ottimistico della volontà, non è meta raggiunta, è piuttosto ri-conoscimento, è conquista sospettosa, contrastata dalla forza d’attrito dell’intelligenza. Al termine del lungo apprendistato, quel che ancora si può chiamare vocazione è il sedimento del lavoro dell’attore come conquista della comprensione di sé. Sicché il rovesciamento del celebre incipit di Aden Arabia che pareva di cogliere nel titolo, già non appare più così sicuro. Qualcuno ricorda ancora? Avevo vent’anni e non permetterò mai a nessuno di dire che questa è l’età più bella. Diceva più o meno così, Paul Nizan.

    Avevamo vent’anni e non so se erano per noi anni felici, non posso cioè dire la qualità o il colore di quella felicità. Ho piuttosto la percezione vivida di un senso di ricerca che ci accomunava, di qua e di là da un sipario che era stato abolito da tempo. Che spingeva a incontrarsi, a condividere spazi e tempi diversi da quelli del palcoscenico. Si saliva per strette scale all’appartamento di via Panicale, nel centro di Firenze, dove vivevano i tre artefici del gruppo che si chiamava allora Carrozzone, dove avevano preparato e mostrato il primo dei loro spettacoli. Che poi erano “studi”, spesso prove uniche o variazioni, dov’era prevalente la necessità di definire un’estetica scenica autonoma (dal testo, dall’interpretazione, dall’immagine). E pazienza se sarebbe stata letta per lo più come manifestazione di una condizione di disagio giovanile e di rivolta generazionale. Certo era forte il sentimento di un “dopo” che avrebbe spinto Beppe Bartolucci a parlare di post-avanguardia.

    Dopo l’irripetibile stagione degli anni Sessanta che aveva sconvolto senso e forma dell’esperienza teatrale. Dopo l’epifania dei maestri della scena internazionale, riuniti da Luca Ronconi a Venezia per una memorabile edizione del festival teatrale della Biennale all’insegna del “laboratorio”, a metà degli anni Settanta.

    Eppure che vitalità sembrava ancora manifestare la scena alla fine di quel decennio ricco di conflitti e terribile per sangue versato, quando il Carrozzone con un suo Rapporto confidenziale attraversava le stanze di un edificio in demolizione nella periferia bolognese, fra pareti di ghiaccio e diapositive che ricreavano installazioni d’arte, o anticipava le commistioni pop dell’estetica post-moderna con un Crollo nervoso di delirante divertimento e poesia.

    Le immagini si affacciano ancora vivide per l’emozione della memoria. Le geometrie spaziali del Calderon di Ronconi. L’urlo nero e l’immobilità attonita della “classe morta” raccolta su vecchi banchi scolastici da Tadeusz Kantor. Il pozzo in cui si calavano Remondi e Caporossi. Il volto androgino di Winston Tong che in abito femminile manovrava un pupazzo uguale in tutto a lui. E Carlo Cecchi giovane dandy che rifaceva la farsa napoletana di Petito alla luce della lezione di Eduardo e del Living Theatre. E Pig, Child, Fire! degli amatissimi ungheresi dello Squat Theatre e poi quel loro mimetico Andy Warhol che incontrava Ulrike Meinhof (qualcuno ricorda ancora?) al riparo trasparente di una vetrina sulla strada. E i “sogni proibiti” danzati dalla Gaia Scienza. E il casco d’oro di Marisa Fabbri che reinventava la tragedia per una ventina di spettatori a sera in un altro spazio in abbandono, a Prato.

    Immagini disordinate, che forse però riescono dar conto di quel teatro che era anche il nostro teatro, dico di chi si affacciava allora alla scrittura. Spettatori di un teatro che spesso ci era coetaneo. Un teatro diverso. Che voleva rimettere in questione gli stessi fondamenti della pratica artistica. Quel teatro che i critici per bene non andavano nemmeno a vedere, e che ci sembrava chiedere nuove parole, un nuovo modo di raccontarlo. E poco conta se qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, aveva già dichiarato la fine dell’avanguardia. Non per noi, malgrado i periodici segnali di ritorno all’ordine.

     

    Ci sono nella carriera di un artista, momenti diversi – scrive a un certo punto Lombardi. Alcuni sono felici, segnati dalla grazia. Altri sono fangosi, oscuri, di doloroso brancolare nel buio. Ma non è questa alternanza il fondamento di ogni esperienza creativa? Non sono forse necessari gli uni e gli altri? L’arte dell’attore non è un processo lineare. Lo insegnava già Zeami, l’antico maestro del teatro nō giapponese. E la sua lezione, il suo segreto, permea a fondo il processo di conoscenza di sé che accompagna la crescita artistica dell’attore, più ancora di quel che dica il richiamo esplicito alla elaborazione di una recitazione “moderata e non troppo minuziosa”.   

    Questo non è del resto un manuale sull’arte dell’attore. Non è nemmeno ordinata biografia di fatti compiuti, non è raccolta di memorie pettegole. È una “vita immaginaria” alla Marcel Schwob, un nome che singolarmente non compare, mi sembra, in nessun punto del libro, ma che certo è caro all’attore. Stesa in una terra di nessuno tra la veglia e il sonno, il territorio della memoria.

    Realtà e memoria nel lavoro dell’attore, dice il sottotitolo del libro. E conviene soffermarsi sulla congiunzione. Sembra quasi che i due termini, se non proprio opposti, qui si affianchino nel delineare due esperienze vitali del tutto separate. La memoria ela realtà. E fra le due, l’interesse di Lombardi piega inevitabilmente verso la memoria. Sfogliando da capo le pagine de Gli anni felici, una volta arrivati alla fine, ci si accorge di quanto sia fitta la rete dei rimandi a questa esperienza. Ovvero il tentativo di rimodellarne i mobili confini. Giacché di una memoria niente affatto conservativa si tratta, ma al contrario creatrice, capace di trasformare la realtà. Luogo in cui brandelli del passato reagiscono e si attivano. La memoria, ci dice, non conserva algidamente i dati immagazzinati ma li espone al contatto con nuove esperienze. Quando il pensiero vola sugli avvenimenti passati e per improvvise illuminazioni vi scopre un senso mai colto prima. Poi che dalla memoria nasce il pensiero, ricordare è anche pensare ci dice l’antica lingua biblica.

     

    C’è in effetti un filo, nemmeno tanto segreto, che segue il percorso tracciato dall’attore ed è quello dei luoghi attraversati. Spazi teatrali spesso poco canonici. Gallerie d’arte. Luoghi dove provare. Case di vacanze che non sono mai solo tali, sono sempre occasioni di incontri e di scoperte. E vale per tutti il lungo affettuoso capitolo riservato a Juan Roman, inqualificabile artista circondato da un alone di esotismo per le origini ispano-marocchine o le bizzarrie, mentore e guida attraverso le strade di Tangeri e Marrakech dove il gruppo inseguiva le tracce di Jean Genet, grumo da cui Federico Tiezzi sarebbe poi partito per la scrittura drammaturgica della trilogia riunita sotto il titolo di Perdita di memoria.

    Tutto il racconto del resto prende avvio da un luogo, la casa in cui ora vive l’attore, nella campagna fuori Firenze. È da lì, dalla sua solitudine, che lo sguardo si volge all’indietro. All’infanzia in Casentino. L’incontro ancora negli anni di scuola ad Arezzo con Federico, che invece era di Lucignano, nel senese, altro paesaggio e l’incanto di una lingua già diversa, insieme rude e raffinata. E con la Loriana diventata nell’arte Marion D’Amburgo. Poi giù, l’affondo nel “mestiere”. I nomadismi, i maestri cercati o incontrati per caso, in un vero e proprio inciampo.

    Fino alla prova altissima a cospetto dell’opera di Testori, della cui invenzione linguistica l’attore si appropria, ricreando a suo modo una contaminatissima parlata lombarda che è lingua della carne, anzi della “carnascia nostra”, immersa in una carnalità dove sesso e morte si congiungono. Quattro creazioni, dal primo imprevedibile Edipus al più recente e corale Ambleto, passando attraverso i tre “lai” funerei e beffardi scritti dal gran lombardo sull’orlo della morte, che segnano uno dei momenti di assoluto fulgore nel teatro degli ultimi decenni. Ne abbiamo parlato un’altra volta.

     

    Dal ritratto dell’attore da giovane di un ormai lontano spettacolo al ritratto d’artista da vecchio scritto da Mario Luzi sulla figura di Simone Martini, un intero zodiaco sembra essersi compiuto. O una metamorfosi, che dal faticoso apprendistato ha tratto fuori l’attore magistrale che è oggi Sandro Lombardi. Sarà per questo che un po’ di nostalgia vela le ultime pagine del libro al pari dell’ultimo spettacolo interpretato, quel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini in cui trova compimento il lontano incontro di Lombardi e Tiezzi con Luzi, quando i due giovani artisti di teatro chiesero al poeta di curare la drammaturgia del Purgatorio, per una loro trasposizione teatrale in divenire della Commedia dantesca. Lo dice quel sipario dorato che richiama certo il fulgore dei fondi oro del trecentesco pittore senese ma è non di meno un segno riconoscibile per chi ha seguito da più tempo il loro lavoro. Come l’appello a una memoria comune. Il poemetto di Luzi inscena le tappe di un ultimo viaggio del pittore ormai vecchio da Avignone, dove stava la corte dei Papi, alla città natia. E fra le folgoranti apparizioni del viaggio e le visioni di una misteriosa malattia, quel che si dispiega è il senso di una vita nell’arte che appartiene tutta al presente e non al passato.

    L’ultimo capitoletto si intitola “Guarigioni” e dice dell’uscita da certe malattie febbrili dell’infanzia, quando il mondo intorno appariva mutato. Ma mutato, cresciuto, era il ragazzo di allora. Il teatro, sembra dirci Lombardi, è per l’attore una benefica malattia da cui si esce guariti attraverso una crescita interiore. La salute non è dono ma conquista. E forse vale anche per gli anni felici.

     

    © Gianni Manzella

     

    Post Tagged with ,