• La Santa estasi di Antonio Latella di fronte alla tragedia greca

    Chissà perché Antonio Latella ha voluto intitolare Santa estasi questo suo impegnativo e in fin dei conti assai riuscito progetto dedicato alla tragedia greca, o per dir meglio alla tragica stirpe degli Atridi. Otto ritratti di famiglia, dice il sottotitolo. Tanti sono infatti gli spettacoli, in sé compiuti, in scena al teatro delle Passioni di Modena, meritoria produzione di Emilia Romagna Teatro. Estasi è letteralmente uno stare fuori. Allude a un annullamento di sé, a un’attivazione emotiva che si produce davanti alla manifestazione del divino. Ma più che a Santa Teresa d’Avila, ci sembra che l’estasi qui convocata rimandi alla partecipazione a un rito segreto quali erano ad esempio i culti misterici di quell’inconoscibile antichità. E vale naturalmente tanto per l’attore quanto per lo spettatore che ne è stato testimone.

    Non è facile riavvolgere il nastro delle due giornate modenesi a cui abbiamo partecipato. Ritornare all’inizio, a quella Ifigenia in Aulide che in realtà muove da Seneca e non da Euripide. Perché occorre risalire più indietro ancora, al conflitto fra i due fratelli Atreo e Tieste che poi non per caso si duplicheranno in Agamennone e Menelao, come rende visibile il fatto che siano interpretati dai medesimi attori. Sta lì, in quell’orrido pasto, il germe della tragedia degli Atridi. I figli e nipoti di colui che imbandì al fratello la carne dei figli uccisi. Urlano e battono i pugni, staccandosi dall’immobilità del gruppo raccolto attorno a un grande tavolo, tirato a ridosso della prima fila della gradinata al momento dell’ingresso in sala degli spettatori. Attori alla prova, vien da pensare, infatti è ancora vuoto il grande spazio scenico che si allunga alle loro spalle.

    La scena in realtà non è così vuota come sembra. Da un lato corre una parete con una serie di porte che ci sembra di conoscere, dopo un po’ torna in mente, è la stessa infatti del Servitore di due padroni proposto da Latella qualche stagione fa. E tutt’intorno si allineano poltrone e divani, due grandi specchi appoggiati a terra sul fondo, una cucina a gas che vedremo anche in funzione… Tutti oggetti di recupero anche questi, provenienti cioè da altri spettacoli del regista. E questa scelta, nata evidentemente da ragioni di economia produttiva, dice già qualcosa sul ruolo che vi gioca la memoria.

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    Quei pochi arredi verranno ricomposti secondo geometrie sempre diverse, passando da un lavoro all’altro. Spostati anche a vista dagli attori, alternando i pieni e i vuoti. Il tavolo da obitorio su cui Elettra ha con fatica rivestito il corpo pesante del padre ucciso diventa senza soluzione di continuità quello domestico attorno a cui incontra il fratello Oreste e l’amico Pilade. E comparirà anche un grande cavallo da giostra, o meglio un favolistico unicorno, a fare da contrappeso fantastico alla crudezza dei rapporti familiari che costituiscono il contenuto nemmeno tanto latente del mito, fra violenze e incesti. E del resto qualcuno a un certo punto si fa fautore del fantasy come commistione del maschile del poema epico con il femminile della fiaba. Anche se poi qui sembra evidente la prevalenza testuale di uno sguardo femminile, che si rivolta al culto degli eroi, per troppo tempo hanno stuprato le donne.

    Latella ha affidato a otto giovani drammaturghi e registi il compito di rielaborare i testi classici concentrandosi di volta in volta su un protagonista della saga. Attingendo a Euripide soprattutto (di Eschilo sono ripresi solo un paio di tratti dell’Orestea, Sofocle non compare del tutto). Non per caso il più borghese dei tragici greci, se si segue la lettura insuperata che ne diede Massimo Castri. E riservando a sé il ruolo di regista concertatore, in modo da restituire un’unità formale a ciò che altrimenti si disperderebbe nella difformità delle voci. Ciò che si coglie è la volontà del regista di avanzare accanto alla tragedia, cioè letteralmente di attuarne una parodia. Parodia seria, naturalmente. Cioè intesa non soltanto come trasposizione dal serio al comico, quanto come presa di distanza da un oggetto che sfugge a una rappresentazione diretta.

    Non è casuale in tal senso la vera e propria manovra avvolgente messa in atto da Latella, che si affida alla lezione di Amleto agli attori per dire che bisogna evitare ogni eccesso ma poi non esita a strizzare l’occhio al gender, non si sottrae alle gag della comicità slapstick, eccede forse solo nelle troppe sigarette fumate in scena, sulla soglia incerta fra il lutto e lo sberleffo, fra le Cicale di Heather Parisi e il potere evocativo di Dance me to the end of love. Quello che conta è il lavoro che compie con i sedici giovani attori dell’inedita compagnia, tutti più o meno vicini ai trent’anni e anche parecchio meno – piacerebbe che questa esperienza avessero il coraggio di proseguirla. Dove è evidente la costruzione di una memoria dei personaggi, come in altri tempi aveva sperimentato Thierry Salmon, in un contesto teatrale del tutto diverso.

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    E allora, per così dire in ordine di apparizione, ecco i già citati Agamennone e Menelao di Leonardo Lidi e Ludovico Fededegni che esprimono anche fisicamente la loro insanabile contrapposizione. E la voluttuosa Elena di Barbara Chicchiarelli che entra in scena sull’onda di una scarmigliata Yellow submarine, sembra sempre voler sfidare con l’immagine la fama che le è stata cucita addosso ed è la più infelice di tutti. E poi la Clitemnestra di Ilaria Matilde Vigna che fa la regina cattiva, con quei capelli biondo platino e i tacchi alti e strizzata in abitini scollati che mettono in rilievo il seno, come a prefigurare l’ultima difesa che opporrà al coltello del figlio. E ancora il triangolo erotico che si forma fra Oreste, matricida riluttante, e il fanatismo intellettuale di Elettra e i silenzi di Pilade, sono Christian La Rosa, Marta Cortellazzo Wiel e Andrea Sorrentino. Senza dimenticare lo sgallettato coro a due di Mariasilvia Greco e Barbara Mattavelli, scarpette argentate e occhiali scuri, che intervengono a sproposito con il loro cabaret nei momenti in cui bisogna sottrarsi all’incombere del pathos. E se proprio non citiamo tutti è davvero solo per ragioni di spazio.

    L’ultimo tratto è anche quello drammaturgicamente più debole. Non senza un motivo, ne è protagonista Crisotemi, la più giovane dei figli di Agamennone e Clitemnestra, l’unica a cui nessun tragediografo ha prestato attenzione. Personaggio senza storie e senza parole, espulsa dal mito. Ci ha pensato allora Linda Dalisi a ridarle un posto nella storia e le parole con cui si confronta con il padre, accanto alla grande tavola imbandita che aspetta l’arrivo della famiglia. Troppe parole forse, e non aiuta il ricalco beckettiano. Ma quando ritornano tutti, vestiti eleganti perché ormai siamo ai saluti (be’, Elena è un po’ eccessiva anche in questa occasione, con quella schiena nuda), c’è già un anticipo di nostalgia. È successo altre volte, ricordo ancora a tanta distanza di tempo la grande epopea sovietica dei Fratelli e sorelle di Lev Dodin. Attori e personaggi si confondono. Per due giorni siamo stati con loro, abbiamo imparato a conoscerli, siamo diventati parte della loro famiglia, non è facile distaccarsene. Che sia questo sentimento la santa estasi? Buio.

     

     

     

     

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