• L’Antigone di Tiezzi tradisce Brecht per ritrovare la tragedia

    L’Antigone riscritta da Bertolt Brecht nel 1948 non è molto diversa dall’omonima tragedia di Sofocle. Anzi, Antigone di Sofocle volle intitolarla allora, lo scrittore di drammi, quasi a rimarcare con intenzione la diretta derivazione dall’antica tragedia greca – anche se in realtà la fonte letteraria è la traduzione che ne fece Hölderlin, tanto estrema e letterale da essere riprovata dai benpensanti dell’epoca che videro in essa il germe della follia del grande poeta romantico. E tuttavia la distanza c’è e a misurarla non è solo il richiamo del prologo all’attualità della guerra nazista, il dialogo lancinante fra due sorelle chiuse in casa mentre fuori il fratello viene scannato. È che Sofocle inscena lo scontro fra due ragioni profonde, nel che appunto consiste il pensiero della tragedia. Quello brechtiano è invece dramma senza tragedia. Qui la linea che separa ragioni e torti è netta, per Brecht come per lo spettatore da lui convocato si tratta di guardare ai fatti e trarne le conseguenze. Da un lato un potere cieco, quello di Creonte, che ha trascinato la città in una guerra di conquista. Dall’altro la ragazza Antigone, la figlia di Edipo, che rivendica il dovere di dare sepoltura al fratello ucciso per essersi rifiutato di combattere quella guerra.

    Proprio questa evidenza aveva guidato il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, quando negli anni sessanta da questo testo avevano tratto forse lo spettacolo simbolo della loro storia e di un intero movimento artistico, laddove il rinnovamento del linguaggio teatrale si coniugava alle istanze etiche e politiche, in accordo con la scelta pacifista del collettivo americano. Giacché non c’erano dubbi sulla posizione di Antigone negli anni del Vietnam. Un’altra guerra americana, se possibile ancora più inutile e stupida di quella, pesa sulle coscienze oggi che Federico Tiezzi firma del dramma la nuova assai bella messinscena prodotta insieme a Ert e Teatro Metastasio. E un omaggio ai cari maestri potrebbero volentieri sembrare quegli iniziali tableaux vivants che scandiscono il duetto spezzato delle due giovani donne, intorno al coltello piantato su un pezzo di pane, a terra, che già ambiguamente si apre a una duplice lettura, fra gesto quotidiano e rivolta armata.

    Quegli anni non ancora di piombo e quello spettacolo sono però lontani. Diversissimo è già l’impatto visivo, al sollevarsi del sipario di plastica che isola l’interno della scena disegnata da Francesco Calcagnini. Tre pareti, alte grigie senza finestre, racchiudono quel che visibilmente è un obitorio, con le file dei lettini schierati sotto le grandi lampade al neon, i corpi distesi lì sopra coperti dai lenzuoli. Molto teatrale, si direbbe da stabile tedesco. Ma questo spazio forma come un’isola in mezzo al palcoscenico, dai lati si vede quel che si muove “dietro le quinte”. La finzione è dichiarata due volte.

    Comincia con la secchezza di un dramma didattico l’Antigone di Tiezzi. Le due sorelle, Chiara Muti e Debora Zuin, disputano intorno al corpo del fratello disteso a terra, se bisogna violare la legge che ne ha vietato la sepoltura, per dare un esempio ai latenti oppositori. Quasi maschile Antigone, stretta in un giubbino di pelle, se non fosse che quella posa da ragazzo è contraddetta dall’emotività della parola. Mentre i corpi si sollevano da sotto i lenzuoli, come morti viventi, lasciando intuire il vero significato di questa cerimoniale autopsia. E Creonte entra invece in scena su una sorta di trabattello, un’impalcatura mobile di tubi metallici su cui sta eretto, regale, avvolto in un mantello che gli crea addosso un rigido guscio, maschera impenetrabile di un potere inaccessibile. Come già il Living, Tiezzi ingloba nel testo le didascalie scritte da Brecht per il proprio quaderno di regia, le usa come siparietti per spezzare e raffreddare l’azione, anticipandone il contenuto. Perfettamente brechtiano. Il dramma si dipana lungo il filo della sua lucida logica dimostrativa, reso fin troppo contemporaneo da particolari tremendamente familiari. La tuta color arancio dei prigionieri, quasi allegra, a non vedere le catene ai piedi. Il cappuccio infilato sulla testa della condannata condotta a morire.

    E invece no. Tiezzi tradisce Brecht, nel momento in cui sembra aderirgli, non meno di quanto Brecht aveva tradito Sofocle. Lo fa senza bisogno di cambiare una parola del testo, tradotto da Cesare Mazzonis. Bastano i corpi degli attori, quello di Sandro Lombardi prima di tutti. Giacché tutto lo spettacolo non è che un lento slittamento che accompagna il percorso umano di Creonte, verso la conoscenza. È lui infatti l’unica figura in divenire, l’unica capace di riacquistare una dimensione tragica. Antigone resta chiusa nel suo fanatico assolutismo, dove la pietà per i morti è troppo legata alla difesa degli ancestrali valori privati contro quelli collettivi per non destare qualche sospetto, magari ci regalasse davvero un elogio del disertore, e la sorella Ismene è quasi cancellata da Brecht, lei che potrebbe essere la sintesi di un laico sentimento di fratellanza.

    Tocca a Creonte confrontarsi con il coro dei vecchi cittadini di Tebe (fra gli altri Lucia Ragni, Silvio Castiglioni, Marion D’Amburgo) come con le preoccupazioni di sopravvivenza del guardiano (Massimiliano Speziani), fino all’incontro con il derisorio Tiresia di Giampiero Cicciò che conclude la vicenda in maschera alla luce di una gelida visionarietà. Lo sguardo del Tiresia contemporaneo non è rivolto al futuro ma al presente. E il presente che ci racconta è dannatamente vicino a quello che viviamo, con la guerra di conquista frettolosamente dichiarata vinta e sul punto di trasformarsi in una sconfitta storica, il crescere del numero dei morti, la pubblica opinione che scopre di essere stata ingannata. Manca alla storia attuale proprio Creonte, manca la dimensione tragica del potere. Al suo posto siedono oggi dei miserabili personaggi da operetta. Avercelo ricordato non è l’ultimo dei meriti di questo spettacolo.

     

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