• Essere Glenn Gould. Tiezzi e Lombardi portano in scena Il Soccombente di Thomas Bernhard

    L’altro era Glenn Gould. In fondo si potrebbe riassumere così il senso del romanzo che Thomas Bernhard ha intitolato Il soccombente. Più che un romanzo, in realtà un lungo ininterrotto monologo della voce narrante. È giunto nella locanda del paese di campagna dove si era ritirato a vivere e dove si è appena ucciso il suo amico Wertheimer. Ora ricorda. Erano in tre, ventotto anni prima. Grosso modo alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso. Si erano incontrati a Salisburgo per seguire un corso di Vladimir Horowitz, erano andati ad abitare insieme. Poco più che ventenni. I primi due intenzionati a diventare dei virtuosi del pianoforte, fino a che non avevano ascoltato l’amico nelle Variazioni Goldberg. L’altro era Glenn Gould. L’artista che ancora giovane si era negato ai concerti per chiudersi in studio da solo con il suo Steinway. Adesso è morto anche lui. Di morte naturale, come si suol dire. 

    Sono tre anche gli attori sul palco del teatro Vascello, a Roma, dove va in scena lo spettacolo che dal romanzo ha tratto Federico Tiezzi. Accanto all’impeccabile Sandro Lombardi, nei panni del narratore privo di un nome proprio quasi a suggerirne anche così l’identificazione con l’autore, ci sono altri due personaggi. Due fantasmi, sarebbe meglio dire. Lo scomparso Wertheimer, il soccombente del titolo, sopraffatto dal confronto con il geniale pianista canadese; e sua sorella, la si potrebbe definire un reagente della debolezza dell’uomo (sono Martino D’Amico e Francesca Gabucci).

    Foto di Giusva Cennamo

    Scritto nei primi anni ottanta, a ridosso della morte del pianista canadese, Il soccombente è un’altra variazione sul tema che accompagna tutta l’opera di Thomas Bernhard. Il grande interprete come magica figura di mediatore fra l’autore e il pubblico. La maniacale ricerca di una perfezione impossibile che confina con la follia e con la morte. Come vogliono i due conflittuali fratelli de L’apparenza inganna, l’artista giocoliere e l’attore di teatro, di cui proprio Tiezzi e Lombardi avevano dato una prova memorabile… il ritratto dell’attore da vecchio di Minetti, inseparabile dalla maschera di Lear… Ma poi Bernhard stesso è il personaggio principale di tutto quello che ha scritto.

    La riduzione di Ruggero Cappuccio si è data il compito di alleggerire l’ossessiva scrittura circolare di Bernhard, la “micidiale tendenza al soliloquio” (così qualcuno ha detto) che ne è il Leitmotiv e avviluppa il lettore nella rete delle sue parole. Dando corpi a quei dialoghi puramente mentali (la traduzione è quella di Renata Colorni pubblicata da Adelphi). Meno comprensibile la scelta di cancellare l’invettiva incontenibile che è un tratto inconfondibile di quel parlare inesausto. Contro i docenti di canto dei conservatori, in buona parte dei ciarlatani; contro il nazionalcattolicesimo di un paese che invita al suicidio; contro Salisburgo città dalla bellezza ripugnante, dice (se Bernhard aveva disposto che mai, dopo la sua morte, nulla di quanto aveva scritto poteva essere rappresentato entro i confini dello stato austriaco, ci sarà stato pure un motivo). 

    Eccolo dunque l’artista che all’interno del camerino, ancora in vestaglia, si prepara per andare in scena. Un musicista, come indica il frac d’ordinanza di cui si va progressivamente vestendo prima di sedersi al pianoforte che campeggia al centro della scena di Gregorio Zurla, sotto una virtuale teca piramidale di bianchi tubi neon che delimitano anche il quadrato dell’azione. Forse quello Steinway su cui si accartocciava Gould per essere tutt’uno con il suo strumento. Per suonare dal basso verso l’alto, non come tutti gli altri dall’alto verso il basso, osserva qui chi ricorda. Con un quadernetto di appunti in mano, perché il protagonista, lo si è detto, è anche la voce dell’autore intento a mettere insieme i materiali per scrivere di Glenn Gould. E non sorprendono allora quei colpi di gong che scandiscono le riprese della vestizione, la scrittura è sempre un corpo a corpo con il suo oggetto.

    Si siede al pianoforte, Sandro Lombardi, e apre lo spartito. Mentre sul monitor, dove all’inizio avevamo ascoltato le Variazioni Goldberg di Glenn Gould, è apparsa l’immagine iconica di un pianoforte in fiamme davanti al mare – è una lontana performance del pianista giapponese Yamashita Yosuke. E ora balena un numero, 4’33”. È la durata e il titolo di una celebre composizione in tre movimenti di John Cage in cui l’esecutore resta immobile senza suonare, salvo girare le pagine dello spartito e alla fine chiudere il pianoforte. Che forse è tempo di riaprire, diceva anni fa un altro maestro.

    Forse non sbagliamo nel vedere in questo finale la mano dell’artefice Federico Tiezzi che si riappropria dell’opera. E ci piace immaginare la volontà del regista di contrapporre la comicità sorniona di Bernhard a una visione terminale dell’arte. 

     

    © Gianni Manzella