• Il sonno della consapevolezza genera mostri

    Cominciano e finiscono in un sonno Le voci di dentro con cui Toni Servillo torna a Eduardo, a qualche anno di distanza da quel Sabato, domenica e lunedì che ci era parso lo spettacolo più bello e commovente tratto da un testo del maestro napoletano dopo la sua scomparsa. E si sa che cosa i sonni possono generare, quando si allenta la presa della ragione. È una nera commedia di sogni, ombre, visioni, incubi notturni, Le voci di dentro. Vi si annidano le anime dei morti senza pace, si insinuano nei pertugi della casa e dispettosamente negli abiti da indossare, nella cravatta che non si riesce ad annodare.

    Sogna la cameriera Maria che all’inizio vediamo riversa su una sedia davanti al tavolo di cucina, incapace di mettersi al lavoro alle prime ore del giorno. E pure nella sua giovanile innocenza, il sogno è un film surrealista di immagini che grondano sangue. Sogna Alberto Saporito. E nel sogno è certo che i vicini, quella brava famiglia Cimmaruta che vive sulle spalle delle donne di casa, hanno ucciso il suo amico Aniello Amitrano. Li ha spiati, ha visto come l’hanno attirato in un tranello e dove hanno nascosto la camicia insanguinata e i documenti compromettenti. In un foro nascosto dietro la credenza. Così è corso a sporgere denuncia e ora lì, nella loro cucina, attende insieme al fratello l’arrivo dei gendarmi, guardando di soppiatto l’orologio che prolunga il piacere cattivo di potergli gettare in faccia apertamente l’astio ancora velato. Bruciateli vivi, urla stridulo in una esaltazione da inquisitore religioso, mentre li portano via.

    Ma ha sognato davvero Alberto Saporito? Anche lui non ne è più certo. Non sa cosa è vero in questo calderoniano intrecciarsi di vita e sogno, davanti alla sfilata dei familiari che si accusano l’un l’altro del delitto. L’hanno creduto possibile, l’hanno messo nel bilancio della famiglia, forse erano pronti a commetterne un altro, come suonerà il suo atto d’accusa nel finale di tono moraleggiante, quando una luce abbagliante invade la scena e dovrebbe essere il momento della consapevolezza (era anche il brano con cui Leo de Berardinis aveva scelto di chiudere l’affresco di Ha da passà ’a nuttata, lavoro alla cui creazione anche Servillo non era stato estraneo). Tutti a pensare che si sia tirato indietro per paura. Tutti a ripetergli: caccia i documenti, ha un bel replicare che non li tiene.

    Commedia nera, nerissima dunque, come si è alla fine cristallizzata nella forma che leggiamo nei Meridiani, con tutto il suo filologico apparato di note e varianti. Ma perché sia teatro bisogna sottrarla alla letteratura. Ed è qui che Servillo è grandissimo, proprio sulla scorta della grande lezione di Eduardo, che il teatro lo ha scritto sul palcoscenico. Via ogni tentazione pirandelliana, se mai c’era stata; via anche l’impianto realistico, negato tanto dalla visionarietà del testo quanto dall’astrazione della scena disegnata da Lino Fiorito, su una pedana che si aggetta in pendenza dal palcoscenico del Piccolo teatro milanese di via Rovello, pareti neutre che sembrano assorbire i pochi funzionali arredi, grappoli di sedie che appaiono in trasparenza a dare un ulteriore tocco surreale alla casa magazzino dei fratelli Saporito, poverissimi eredi di un’antica fiorente attività di apparatori di feste.

    Perché Le voci di dentro è prima di tutto un canovaccio, persino sgangherato lo si è definito e non senza qualche ragione, e qui sta anche la distanza dalla struttura drammaturgica perfetta di Sabato, domenica e lunedì. Un canovaccio scritto in pochi giorni, in una stanza d’albergo di Milano, nel 1948, per sostituire La grande magia che una presunta indisponibilità di Titina impediva di rappresentare. Le scene portate in copisteria mano a mano che venivano scritte di getto e poi via sul palcoscenico del Nuovo dove gli attori stavano provando. Al di là della leggenda, che all’autore non dispiaceva, la modalità compositiva ci dice di una qualità del testo che gonfia la responsabilità degli interpreti. E che Servillo traduce nella forma esilarante della farsa napoletana, per altro con un lavoro di esemplare approfondimento drammaturgico che attinge certamente anche alla seconda edizione televisiva realizzata da Eduardo, la sola di cui è rimasta la registrazione.

    La distanza da Sabato, domenica e lunedì si misura anche temporalmente nel decennio che separa le due commedie. Anni che non sono trascorsi invano. Da arretrato paese agricolo qual era ancora al termine della guerra, l’Italia si scopre diventata una delle prime economie mondiali, e l’estate del 1960 con gli scioperi e i morti sulle piazze che ricacciano indietro il governo Tambroni segnerà lo spartiacque del nuovo che nasce. Sarà per questo che non riusciamo a voler male a Rosa e Peppino Priore, sentiamo che fanno parte del nostro “album di famiglia”. E quel loro dolore rimosso ci tocca, anche quando si scannano per un piatto di maccheroni alla siciliana.

    Le voci di dentro è altra cosa, nessuna identificazione è possibile. Siamo di fronte a uno specchio deformante e l’immagine deforme che vediamo riflessa ci interroga. La cosa di cui ci parla è la banalità del male. Qui nessuna “anima buona” è rimasta, nessun dio scenderà sulla terra a salvarla. Nessuna consolazione è possibile. Non fa eccezione la grande invenzione dello Zi’ Nicola che come forma solitaria di protesta contro l’umanità ha scelto di non parlare più e si è esiliato su un soppalco da dove comunica con un fuoco d’artificio di botti e bengala e qualche sputo. C’è anche in questo personaggio, nella sua denuncia della malattia della parola, soltanto il grado zero della misantropia.

    Che questo pensiero negativo, questo pessimismo esistenziale che impregna tutto teatro eduardiano del dopoguerra, prenda forma nella farsa, non fa stupore. Si ride perché è proprio impossibile farne a meno di fronte alla maestria della compagnia messa in scena da Servillo – di quella del protagonista e regista c’è ben poco da dire ormai, gli basta uno sguardo, un battito di ciglia… – maestria che ha a fondamento una tradizione mai così consapevole e manifesta, da potersi permettere anche più di un momento di vera e propria sceneggiata. Ma “di dentro”, appunto, e proprio per lo straniamento prodotto dalla farsa, irriducibile a un momento storico o a un contesto sociale, si sente un fastidioso stridore. E bisognerebbe allora dire di un’acida Betti Pedrazzi e di un mostruoso Gigio Morra e tutti gli altri, dai più giovani al sorprendente Peppe Servillo, fratello anche sulla scena, che tratteggia un tartufesco manigoldo dietro la maschera di uomo devoto. Perché Molière non è lontano, lo sa bene Servillo anche per averlo frequentato con metodo. Lo vedremo alla fine addormentarsi riverso su una sedia, ignaro di sé e del fratello riverso con il volto fra le mani. Il sonno della consapevolezza genera mostri. E questo vale anche per il presente.

     

     

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