• Servillo dirige lo Sconcerto del nostro tempo

    La situazione è questa. C’è un’orchestra schierata sul palco e il pubblico che riempie la platea della sala, dove ancora sono accese le mezze luci. Quando entra il direttore dell’orchestra, vestito come ci si attende debba essere vestito un direttore d’orchestra, e fa il rituale inchino verso il pubblico e poi con un gesto secco della mano dà il via alla musica, nulla sembra distaccarsi dalla consuetudine dell’evento musicale. Ma ecco che il direttore d’orchestra mormora qualcosa. Parole confuse, quasi sconnesse. Con una torsione del busto si rivolge verso gli spettatori, come a cercare un interlocutore al suo improvviso bisogno di dire. Un ribollìo continuo dentro la testa… la bella sinfonia da fare, ma come e su cosa…

    • Foto: Francesco Squeglia Foto: Francesco Squeglia
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    C’è in quel gesto spiazzante dell’interprete, prima ancora che nelle parole che pronuncia, il senso dello Sconcerto che Toni Servillo ha messo in scena intersecando il testo di Franco Marcoaldi alla partitura musicale di Giorgio Battistelli. L’interprete si spoglia di un ruolo e acquista la qualità di personaggio. Mettendo a nudo lo spazio intermedio che sta fra l’opera e il suo fruitore, lo spettatore. In questo spazio, quasi una terra di nessuno, si dibatte il personaggio-direttore. Tirato un po’ di qua e un po’ di là. Fra l’opera che non riesce più a dirigere e quel flusso di parole che gli ribolle nella testa e non sa a chi rivolgere.

    Siamo evidentemente su una soglia. Lungo un margine, o una crepa. Perché l’opera negata, il concerto che non si può fare, la musica di Battistelli insomma, tuttavia ci sta, resiste alla negazione – e non caso a interpretarla sul palcoscenico napoletano del Mercadante è l’orchestra del teatro San Carlo (condotta da un direttore vero, Marco Lena, invisibile al pubblico ma non all’attore che ne mima i gesti). La partitura sonora si sviluppa cioè malgrado le interruzioni, con i suoi pieni orchestrali, con l’emergere dei fiati e delle percussioni. Anzi, riassorbendo al suo interno anche i silenzi imposti o la sonorità di una risata, al pari di una citazione di Brahms o di Kurt Weill. Assecondando la teatralità del protagonista, con quegli archetti già pronti alla battuta che vanno giù all’unisono.
    Ma è, quello musicale, solo il primo dei molteplici livelli di lettura di questo Sconcerto che già nel titolo mostra la sua doppia faccia, laddove un sentimento di turbamento o disorientamento si incrocia con la negazione del concerto. Lasciando sullo sfondo, ma nemmeno tanto, che del nostro tempo si tratta. Che dietro la confusione del protagonista sta un disagio molto contemporaneo. Né è forse un caso che a far da tramite di questo sentimento del tempo che viviamo sia la prova d’orchestra che, dal filmetto di Fellini in qua, è diventata quasi una metafora della dicotomia fra creazione individuale e interpretazione collettiva, fra l’atto autoritario del dirigere e la democrazia della coralità, fra il principio d’ordine e la anarchia.

    Teatro di musica, lo definiscono gli artefici (per non ricadere nel genere del melologo, che è altra cosa). Teatro che nasce dalla musica, si potrebbe aggiungere, senza contraddizione. Se da un lato il gesto creativo, capace di far nascere la musica nel fatidico qui e ora, diventa testimone di un’impasse – dall’altro è quasi con emozione che si assiste al levarsi, fra gli orchestrali, della figura fraterna di Peppe Servillo che dà voce al corale deuteragonista dello spettacolo, a quell’orchestra che si impone come l’altro personaggio presente sulla scena. Per dire che lì stiamo, non se ne esce. Che nello straparlare del protagonista, non conta tanto quel che dice quanto piuttosto il dirlo, il fatto stesso di non rassegnarsi al silenzio.

    Più volte nel corso dello spettacolo tornano ad accendersi le luci in sala. E torna in mente naturalmente Leo de Berardinis, quando invitava il pubblico a guardarsi intorno, a sentirsi parte responsabile di un evento collettivo. Che è fatto linguistico, cioè inevitabilmente politico.

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