• La stanza della tortura. A Roma lo studio di Luca Ronconi sui Sei personaggi

    La stanza della tortura, come un celebre saggio di Giovanni Macchia aveva definito il teatro pirandelliano, si è materializzata in una scatola bianca, illuminata da una luce uniforme. Senza aperture visibili se non quella frontale che guarda alla sala, da cui giungono infatti, alla spicciolata, gli attori, per andare a sistemarsi sulle sedie che stanno sistemate secondo una geometria irregolare eppure non casuale. Come a mettersi in posa. È in questo spazio claustrofobico, isolato dal mondo esterno, senza vie di fuga, che Luca Ronconi ha allestito il suo studio sui Sei personaggi.

    Per la prima prova con il teatro di Pirandello, Luca Ronconi ha scelto di lavorare con i giovani attori diplomati all’Accademia d’arte drammatica, quasi a voler sottolineare anche così il carattere di studio di questo allestimento. E forse non per caso si è rivolto al dramma più celebrato, e in qualche modo paradigmatico, nella vasta produzione del drammaturgo siciliano. Quei Sei personaggi in cerca d’autore che rappresentano quasi un manifesto della sua poetica teatrale.

    Un testo aperto non per caso a un ventaglio di interpretazioni, da quella canonica e borghese di De Lullo, Valli e soci a quella genialmente sperimentale e destrutturata di Anatolij Vasil’ev, che metteva al centro dello spettacolo il rapporto fra arte e vita portando gli attori in mezzo agli spettatori e questi dentro il bordello di Madama Pace, fra le braccia delle affascinanti attrici della Scuola d’arte drammatica di Mosca.

    Non si può dire che ci sia lo stesso divertimento nel lavoro visto al teatro India, c’è piuttosto una sottile ironia con cui il regista tiene a distanza la materia che ha fra le mani. Ronconi non ama Pirandello, lo si capisce. Non nutre interesse per la sua filosofia. Un riquadro disegnato a terra da un proiettore è tutto quel che gli serve per fare il teatro nel teatro. Da un lato evidenzia gli elementi convenzionali del testo, come la madre velata che si esprime solo con uno stridulo lamento o gli attori supponenti non ancora toccati dalla lezione stanislavskjiana; d’altro lato si concentra sulla figura più eccessiva del dramma, la figliastra, esasperandone la volgarità, il suo abbandonarsi quasi con una sorta di vendicativo compiacimento all’abiezione in cui è precipitata. Tutto uno strusciarsi, un mimare i movimenti del coito, la voce arrochita in una sguaiataggine sopra le righe.

    Il regista isola nel dramma tre grandi blocchi, capaci di restituirne anche la struttura narrativa. L’arrivo dei personaggi in mezzo ai teatranti alla prova. La scena madre dell’incontro fra il padre e la figliastra nel bordello di Madama Pace. Il compiersi del dramma con la morte dei due figli più giovani. Ma forse il momento clou è quando a un tratto silenziosamente si apre una invisibile porta nel fondo della claustrofobica scatola scenica, e come evocato da quegli altri spunta dalla fessura socchiusa l’ineludibile settimo personaggio, la grottesca tenutaria del bordello che pure è motore e causa di tutto quell’affanno. E allora il dramma si rivela per quello che è, una seduta spiritica.

     

     

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