• Il peso delle parole per Jean-Marie Straub

    La letteratura non mi interessa, dice Jean-Marie Straub. La letteratura al cinema è noiosa. E può sembrare affermazione paradossale, conoscendo quanta parte del lavoro artistico del cineasta francese e della sua compagna Danièle Huillet nasce da una matrice letteraria. Dal Böll degli esordi, la già folgorante Cronaca di Maria Magdalena Bach del ’68, agli autori italiani a lungo frequentati, Pavese Fortini Vittorini, passando per il tragico di Hölderlin che porta allo scoperto la vocazione teatrale che presiede all’uso dei testi. Il suo farne corpi e respiri. E infatti: mi interessa il peso delle parole, precisa Straub. Situazioni che mettono a confronto due o tre personaggi, le parole sono i rapporti fra le persone. Rapporti di classe, si dovrebbe aggiungere, come avevano titolato la loro trasposizione dell’incompiuta Amerika di Kafka.

    Foto: Erik Labbé

    Fra cinema e teatro si muove anche l’omaggio che Contemporanea, il festival pratese diretto da Edoardo Donatini, ha voluto rendere al regista. Un film, Le genou d’Artemide, presentato di recente al festival di Cannes. Un lavoro teatrale, Le streghe, fresco di debutto sul palcoscenico di Buti e destinato anch’esso a farsi cinema. Legati l’uno all’altro, i due lavori, da una sorta di necessità che va oltre il fatto di essere tratti dai primi (in ordine di composizione) dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Una sorta di rispecchiamento, reso manifesto dal passaggio dal maschile al femminile degli sguardi che vi si incrociano. Pavese mi interessa perché non si compiace di se stesso, che è un vizio italiano, dirà poi nel corso di un incontro che ci rivela uno Straub più fragile e scoperto di come lo si era conosciuto in altre occasioni.

    Da una decina d’anni ha trovato ospitalità creativa presso il teatro di Buti (sì, nel disastrato panorama clientelare del teatro nazionale ci sono ancora questi esempi di intelligenza e generosità). Qui, in questa campagna toscana, sono nati gli ultimi lavori, secondo una modalità produttiva ormai sperimentata in cui la messa “in scena” anticipa e prepara la messa “in spazio” davanti alla macchina da presa. Del cinema povero di Straub-Huillet, orgogliosamente indipendente e non commerciale e privo di orpelli spettacolari e sovente anche di attori professionisti, si è detto tanto, anche il superfluo (e lui ironizza su quell’aggettivo “rigoroso” che gli pesa addosso come una condanna, come il “noi non si poté essere gentili” di Brecht). A questo stile, che poi è scelta politica e anche morale, non si sottrae Il ginocchio di Artemide, incorniciato fra due momenti musicali, il Mahler del Lied von der Erde e un brano di Schultze, a schermo oscurato perché l’immagine non tollera sovrapposizioni, solo le voci in presa diretta e i suoni del bosco. Camera fissa sui due interpreti (Dario Marconcini e Andrea Bacci) in un modulato alternarsi di primi piani e piani medi. Soltanto alla fine, quando già le due figure sono scomparse, l’inquadratura si concede una panoramica dentro la natura, verso un punto di luce che è promessa e destino. Là sul monte, Endimione ha incontrato la dea vergine, l’innominabile, la belva del titolo originale. E l’uomo si sente schiacciato da questo incontro che non lascia scampo, che toglie pace al sonno e condanna alla solitudine.

    È lo stesso nucleo tematico che si ritrova ribaltato ne Le streghe, in scena Giovanna Daddi e Giovannella Giuliani bravissime. La prima adagiata su una geometrica dormeuse, vestita con leggera eleganza. L’altra più dietro, seduta in punta ma non a disagio nel suo abito sportivo, lo sguardo distante. Dialogano o meglio è la seconda, Leucotea, a interrogare il flusso di pensiero della dea Circe che evoca l’incontro con Odisseo. E le parole scorrono con ritmo musicale, modulate dall’artefice su un vero e proprio pentagramma che detta tempi e pause. Dicono sangue e sesso. Di fronte all’uomo immunizzato magicamente contro gli incanti, tocca alla dea scoprire in sé un desiderio di umanità, quasi una nostalgia per una sorte mortale intravista solo per una sera, che di immortale ha solo il ricordo che porta e il ricordo che lascia – parole che hanno un peso specifico forte dopo la morte prematura di Danièle, ma che sarebbe banale leggere in una chiave autobiografica (perché naturalmente è autobiografica come ogni espressione artistica). Torna in mente il mito di Sisifo riletto da Camus, forse non per caso in quello stesso volgere degli  anni Quaranta verso l’uscita dall’incubo nazista, in un libro importante quanto forse frainteso. L’inesausta ricerca di senso a cospetto dell’incomprensibile sorriso degli dei.

    © Gianni Manzella, 2008

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