• L’opera al nero della Figlia di Iorio. A Buti, la tragedia rustica di D’Annunzio

    Il passo dalla scena di Pinter e Beckett, un po’ la summa della drammaturgia del secondo Novecento colta anche nelle pieghe meno esplorate, alla “tragedia rustica d’argomento abruzzese” di Gabriele D’Annunzio non è breve né privo d’insidie. E certo devono avere meditato Dario Marconcini e Giovanna Daddi la scelta di mettere mano a La figlia di Iorio per il teatro di Buti, dopo la folgorante nerissima Ecuba dell’anno scorso. Nata, ci era parso, dalla forte motivazione etica di gridare contro il crimine delle guerre, di tutte le guerre. L’immagine di una città mediorentale distrutta da un bombardamento, scelta come fondale, non lasciava dubbi sul posizionamento dei due artisti. Le parole di Euripide portavano là dove ancora siamo, i bambini uccisi perché quel popolo di vinti non avesse una discendenza. Mentre continua l’osceno blaterare di scontro fra l’espansione o il declino dei valori liberali o di guerra mondializzata fra i fautori e i nemici della libertà e del diritto.

     

    Perché allora questa sorprendente Figlia di Iorio? Il regista molto ha sfrondato il testo ma senza cambiarne una sola parola e l’arcano linguaggio dannunziano è il primo scoglio che si incontra nella navigazione intorno all’opera. Che ci appare più vecchia dei suoi anni, è del 1903, c’era già Čechov per dire. Sottratta cioè alla modernità. Conseguente appare allora la scelta di imprimere alla tragedia l’andamento della rappresentazione popolare che si riappropria della memoria viva del Cantar Maggio in questa terra toscana, con il pubblico diviso su tre lati intorno allo spazio aperto dell’azione; ma rinsecchita per così dire la tragedia, ridotta ai termini dei suoi minimi fatti. Che oscillano, i fatti, fra le “scene di caccia in Alto Abruzzo” che potrebbero richiamare Fassbinder e i “quadri dell’Abruzzo pagano”, anche se qui le croci abbondano a cominciare da quella che sta sul palco del teatro Vittoria, all’inizio, quasi a consacrare l’abito bianco di una cerimonia di nozze che non si farà. Ma è una religiosità primordiale, barbarica e in qualche modo lontana anch’essa nel tempo. Arcaica come quel mondo che contrappone gli stanziali coltivatori ai nomadi allevatori. Si sa che la storia darà ragione ai primi. “Pecoraio” è l’epiteto dispregiativo con cui i contadini si rivolgono ad Aligi, il ragazzo che si è messo di traverso alle loro voglie ed è persino fuggito a nascondersi con la ragazza dalla cattiva fama.

     

    Siamo di fronte a una società patriarcale nel senso più concreto, dove il padre è davvero padrone e può rivendicare un indiscusso diritto di possesso su figli e donne che vale fin dal tempo dei tempi. Dove lo stupro è pratica corrente e quasi un premio dopo la fatica, come lo è la caccia al diverso, all’estraneo alla comunità, in questo caso la protagonista che si porta dietro un’ereditata fama di stregoneria. Non ha nemmeno diritto al nome nel titolo della tragedia, Mila di Codra; ché protagonista lo è solo in quanto figlia del “mago”. Insomma i temi di attualità sono tanti in questa Figlia di Iorio; perfino troppi e un po’ bisogna diffidarne, dell’attualità voglio dire.

     

    Qui, in quest’altra opera al nero, nessuno è innocente. Non lo è la palpitante Mila di Maria Bacci Pasello, incapace di sottrarsi a un destino di sottomissione. Non lo è nemmeno il sempre un po’ attonito Aligi (Leonardo Greco) inconsapevole anche nella sua innocenza, il soccorso che fornisce alla ragazza non nasce da un sussulto morale ma dalla tempestiva apparizione di un angelo e sarà lesto in fine a rinnegarla, quando sarà il momento di ripristinare l’ordine. E dunque ciò che emerge, nella regia di Marconcini, è lo sguardo brechtiano offerto allo spettatore. Il soggetto si allontana nel tempo e nello spazio, accompagnato dalla malia dell’imaginifico verseggiare dannunziano, per lasciare emergere lo stile della lotta dei contendenti. Capace di parlarci di un’altra guerra in corso da più lungo tempo. Lo preannuncia la fisarmonica che interviene a ripristinare il ruolo dialettico della rappresentazione, contro lo spontaneismo dell’emotività. Lo dicono le due voci più mature, la Madre di Giovanna Daddi e il Padre di Gianni Buscarino, che ricordiamo protagonista di Sicilia!, sul palco e nel film ispirato da Vittorini a Jean-Marie Straub, il maestro che a Buti era di casa. Ecco, di questa guerra diffusa può parlarci ancora il dramma in versi di D’Annunzio. Per confermarci che da qualunque cielo venga la fiamma non è mai bella.

     

    © Gianni Manzella

     

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