• Daddi e Marconcini nella solitudine di un Paesaggio autunnale. A Buti, Pinter con farsa finale

    Il cielo in una stanza. Sono le parole della canzone di Gino Paoli le prime che si ascoltano all’apertura del sipario su un palco cosparso di foglie morte. Sul palco autunnale, nel piccolo teatro di Buti, due attori, Giovanna Daddi e Dario Marconcini, siedono di spalle l’una accanto all’altro su due bassi sgabelli, davanti all’immagine di una stanza che non ha soffitto viola e alberi infiniti ma il sentimento di un più intimo vissuto. Un interno domestico immerso in una luce crepuscolare, ingombro di cose familiari. Poltrone e divano, un paralume, molti libri, da un lato un po’ in ombra il dipinto del volto giovanile della donna. Non è difficile immaginare sulle pareti attorno a loro gli oggetti raccolti nel corso di una vita, i loro viaggi, i loro incontri. (Del resto la riconosciamo, è proprio la loro casa). Parlano, ricordano, interrogano l’altro ma senza ascoltarlo. Sembra non sentire la sua voce – dice la didascalia iniziale di Paesaggio.

    Da parecchie stagioni Daddi e Marconcini si dedicano a una visitazione attenta del teatro di Harold Pinter, dei suoi testi minori si potrebbe dire, da Silenzio e Voci di famiglia ai cinque brevi testi, pochi minuti ciascuno, proposti come “prove d’autore” nella lunga stagione creativa dell’autore britannico, successiva al decennio in cui nascono quasi tutti i suoi capolavori. Se non fosse che proprio lì, in quella presunta minorità, può capitare oggi di scoprire sorprese inaspettate. Paesaggio risale al 1967, l’anno prima di Silenzio, e come quest’ultimo si colloca in una sorta di punto di flesso della scrittura di Pinter che volge a quell’interstizio fra passato e presente che definisce un teatro della memoria – o forse metà memoria, metà oblio. I personaggi hanno ancora un nome a copione, ma poi quel nome non viene mai pronunciato. E poi chissà se sono ancora personaggi. Certo è che non vi è più una trama narrativa, quelli di Paesaggio sono ormai entrati in un oltre, sulla soglia di quel “chissàdove” di cui parlava un altro recente lavoro dei due bravissimi attori. E poi, l’abbiamo imparato, è difficile parlare dei fantasmi della mente.

    Lei parla di una giornata al mare, fra le dune, sdraiata accanto a lui. Ricorda di avergli chiesto se vorrebbe un figlio, un bambino tutto loro. Sono bellissima, si rassicura. Fa un po’ la Molly Bloom, fra lontane suggestioni erotiche. Si è sdraiato sopra di me e mi ha guardata. Oh, amore mio, dissi. Lui è più concreto, fin quasi alla volgarità. Di quel paesaggio marino ricorra piuttosto il bar dell’albergo e l’alterco con un cliente che non apprezzava la birra, lui sa bene come si fa la birra. Ma forse fra molti silenzi (le pause di Pinter ma anche quelle sollecitate dalla lezione di Jean-Marie Straub, la burbera maniera in cui li sollecitava a leggere ogni riga di un testo come uno spartito musicale) conta il non detto, ciò che resta nascosto fra le parole, ciò che forse non si diranno più.

    Giunti alla fine, d’improvviso si voltano a guardarsi, come a un risveglio della coscienza. Per un attimo restano immobili. L’immagine della loro casa scompare, sostituta dai colori pallidi del dipinto di un pittore russo della fine dell’Ottocento, Isaak Levitan (lettone di origini ebraiche, il padre era un rabbino, a essere precisi). Si intitola Vladimirka, è un paesaggio tristissimo, una strada terrosa che si inoltra fra i campi verso un orizzonte lontano, sotto un cielo che promette tempesta, quella percorsa dai condannati diretti in Siberia. Che sia questo il paesaggio che attende tutti? Tristissima è anche la canzone che si ascolta ora, The lass of Aughrim, una ballata irlandese che risale indietro a secoli lontani (è anche protagonista di uno dei Dubliners di Joyce ma forse è meglio fermarsi un passo prima, nel gioco delle connessioni, ché non si sa dove si andrebbe a finire).

    Allora Marconcini, anche regista dello spettacolo, ha un soprassalto di vitalità. Indossa la mezza maschera della commedia dell’arte e un cappellaccio calcato sulla testa per ridare vita al Capitan Matamoro delle giovanili scorribande nel teatro di strada per andare incontro alla triste Signora che avvolta in un mantello chiaro l’attende sulla strada. Aspetta, le dice lui. L’accenno di una farsa finale per non cedere alla commozione di quell’incontro. Ora ti lascio, quando ci incontreremo di nuovo sarà l’ora.

     

    © Gianni Manzella

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