• Gezeiten, le maree di Sasha Waltz

    D’improvviso divampa una fiamma sulla scena di Gezeiten. Una lunga lingua di fuoco sale lungo una parete, prima che qualcuno la spenga col getto di un estintore, lasciando una traccia scura sul muro. È la violazione di un tabù, la sfida al terrore del teatro per le fiamme. È il momento di più forte impatto emotivo del nuovo lavoro di Sasha Waltz, portato al festival RED, coloristico acronimo che sta per Reggio Emilia Danza. Varcata la soglia dei quarant’anni, la coreografa di Karlsruhe è oggi fuor di dubbio la più matura erede e innovatrice della tradizione del teatro di danza tedesco.

    Impromptus, la precedente creazione, sembrava indicare un cambiamento di rotta nella traiettoria artistica della coreografa, il ritorno a una dimensione più intima, dopo i grandi affreschi dell’emozionale trilogia dedicata al corpo e al sesso realizzata alla Schaubuehne berlinese. Come un desiderio di leggerezza, che la musica romantica di Schubert gonfiava di un doloroso sentimento di nostalgia. Gezeiten segna, oltre che il ritorno a una compagnia numerosa (sono in sedici, fra vecchi e nuovi ospiti), il passaggio a un dopo, in cui passato e futuro si tengono insieme, visibile già nel divaricarsi della partitura musicale fra le sonate per violoncello di Bach e la contemporaneità di Jonathan Bepler (il musicista del ciclo Cremaster di Matthew Barney). O forse, ancor di più, un ciclico moto alternato fra passato e futuro, fra distruzione e ricostruzione, fra desiderio di conservare e bisogno di rinnovare, come dicono le maree del titolo.

    L’inizio è silenzioso e rallentato, bellissimo. Gli interpreti entrano a coppie dalle tre porte aperte nelle pareti grigie che delimitano uno stanzone spoglio, in evidente abbandono, dove solo gli avanzi di un’ormai incolore tappezzeria testimoniano di un più felice passato. Abiti leggeri dai colori pallidissimi. Piedi scalzi che amplificano la leggerezza del movimento. Corpi che si inseguono, si intrecciano, si appoggiano l’uno sull’altro, fino a formare una fila che si sostiene in un instabile equilibrio, in una sorta di inerte abbandono. Mentre un violoncellista, da sotto il palco, accenna passaggi di musica barocca.

    Ma ecco che succede qualcosa. Un fragoroso momento di buio e la situazione appare mutata. La scena ora si è riempita di poveri arredi, sedie imbottite, un tavolo, un letto di ferro. Come se la stanza si fosse trasformata in un rifugio di fortuna. Le porte sono state chiuse. Il gruppo che si trova rinchiuso lì dentro è costretto a sperimentare il conflitto, in una crescente agitazione gestuale. Una lotta di tutti contro tutti. Un urtarsi cieco che travolge ciò che si trova nel mezzo. Un girare su di sé sulle sedie. “Nonostante tutto è un posto tranquillo”, dice qualcuno, mentre si mettono da parte provviste e si riempiono taniche d’acqua. Ma il fumo che penetra dall’esterno è preannuncio di una nuova catastrofe.

    Fumo e fuoco. La violenza distruttiva di un cataclisma, o di un bombardamento. Visto però dalla parte di chi ci sta sotto, non dalla rassicurante prospettiva televisiva di chi crede all’intelligenza umanitaria delle bombe. Dopo, bisogna ricostruire. Ricucire rapporti. In un anarchico bisogno di fare, senza regole, senza progetto. Carpenteria immaginaria, cui sembrano dedicarsi con un astratto fervore, mentre si costruisce un cimitero di croci di mattoni e le assi del palco vengono rimosse,  accatastate insieme alle altre rovine. Fino a lasciare in vista un paesaggio terremotato. Ultimo stadio di un teatro da ricostruire.

     

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