• Il naufragio del socialismo in un mare di ghiaccio. Tempo di seconda mano di Carlo Cerciello

    Una gelida distesa ghiacciata. Forse l’incantato lago dei cigni di Čajkovskij, lascia intendere la musica che viene da chissà dove, come un’eco lontana. Una ragazzina passa veloce sui pattini, forse inconsapevole di ciò che giace lì sotto. È sorprendente l’immagine che si presenta all’aprirsi del sipario, al Teatro Due, dove Carlo Cerciello ha presentato Tempo di seconda mano. A lasciarsi andare al flusso evocativo di un istintivo only connect si potrebbe pensare anche al mare di ghiaccio dipinto dal romantico tedesco Caspar David Friedrich, noto come Il naufragio della Speranza. Sul fondo quei blocchi bianchi formano una falce e martello di dimensioni monumentali che sprofonda nell’acqua. Alla base è impressa una data, 1991. Sì, qui qualcosa ha fatto naufragio.

     

    Il regista napoletano ha messo mano al ponderoso volume di Svetlana Aleksievič, giornalista e scrittrice bielorussa insignita un po’ a sorpresa del Nobel per la letteratura nel 2015. Con il supporto drammaturgico di Florian Borchmeyer ha estratto poche vicende dalla massa di storie raccolte dall’autrice nell’arco di quasi un ventennio per raccontare passato e presente di quel che era stato il grande impero sovietico. Storie che privilegiano il lato più familiare rispetto a quello pubblico, ma soprattutto rispettose della dialettica fra la nostalgia di un passato che pure si sa colmo di orrori e un desiderio di futuro che già ha tradito molte aspettative. Il tempo è infatti il vero protagonista, come dice il titolo del libro e dello spettacolo. Tempo di seconda mano, cioè già consumato, al cui riuso è difficile adattarsi nella frattura generazionale creatasi fra chi ne reca ancora l’impronta indelebile e chi a costo di qualche semplificazione rifiuta di indossarlo anche come memoria.

    Foto di Andrea Morgillo

    Eccoli che emergono dai ghiacci della scena disegnata da Roberto Crea che si dilata nelle superficie specchianti laterali, gli abitanti di quel luogo. Tutti vestiti di bianco. Anche loro, come nella favola di Čajkovskij, stregati da un lontano maleficio che solo di notte gli permette di assumere la forma umana. Nello spazio del teatro. Con una geniale mossa del cavallo Cerciello ha dato loro l’aspetto di personaggi čechoviani, come fossero usciti da un Giardino dei ciliegi vagamente strehleriano per riemergere a cento anni di distanza a fare i conti sul quel loro lontano interrogarsi sul futuro. Alle spalle hanno il 1991, appunto, il trauma della dissoluzione dell’Unione sovietica con quel che ne è seguito, El’cin e tutto il resto. Vivono in paesi differenti anche se si chiamano tutti Russia. E tutti si sentono traditi.

     

    Ecco infatti confrontarsi di fronte agli spettatori due donne, due amiche per giunta, la professoressa di letteratura che si definisce ancora comunista, e oggi si sente persino privata del diritto di parola in questa nuova Russia, e l’altra, la tecnologa che da subito aveva apprezzato Gorbačëv, finalmente un leader normale di cui non vergognarsi – e sono bravissime Imma Villa e Bruna Rossi. E tutti allora cantano “grande è la patria mia natale” mentre si raccolgono in posa da foto di gruppo. Alle voci inscenate da Svetlana Aleksievič fa infatti da contrappunto la drammaturgia musicale di Paolo Coletta che alterna Musorgskij e Skrjabin con le canzoni patriottiche popolari in un tempo passato.

     

    Alla cortese disputa ideologica si sovrappongono testimonianze più dolorose. Storie che richiamano la memoria del 1937 delle purghe staliniane che si abbattono sul paese. La bambina strappata alla madre finita nel gulag e cresciuta in un orfanatrofio. La ragazza uccisa in Cecenia, un’altra guerra che non si può chiamare guerra. L’uomo imprigionato e torturato senza sapere perché ma che tuttavia anela soltanto a riavere la tessera del partito. La bandiera rossa in cui si avvolge è diventata grigia sul lago dei cigni e alla fine verrà piegata e riposta. Sulla scena ritroviamo Roberto Abbati e Cristina Catellani, due storici volti del Teatro Due che è anche produttore dello spettacolo, ed emoziona il trentenne attore russo Pavel Zelinskij che sulla scena porta le contraddizioni che si aprono fra dissenso e fedeltà al proprio paese.

    A Mosca! a Mosca! non è più l’illusorio grido delle tre sorelle čechoviane. Quei personaggi si sono ormai congelati in maschere aliene dalle grandi orecchie e gli occhi luminosi. La musica vira verso il Kurt Weill di Mahagonny, suggello di un’altra ascesa e rovina, mentre il proscenio viene conquistato dalla giovane donna che veste l’inquietante seduzione di Paola De Crescenzo, un lungo abito da sera nero dai generosi spacchi aperti sulle gambe per andare alla conquista del mondo nuovo che si apre davanti a lei. Moderna Alice nel Paese delle meraviglie che prende nome di Occidente, mercato, sogno americano dell’arricchimento a ogni costo. Se questo è ciò che ha preso il posto dell’homo sovieticus non c’è tanto da stare tranquilli. E infatti il futuro che lascia in dono alla ragazzina dell’inizio è un carro armato da puntare contro gli spettatori. L’angelo della storia, come insegnava un antico maestro, continua ad avanzare con lo sguardo rivolto al passato.

     

    © Gianni Manzella

     

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