• L’Edipo finale di Elsa Morante. Martone dirige La serata a Colono

    In quello straordinario sfrangiato metamorfico poema che è Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante sta incastonato un testo poetico fuori formato, o forse semplicemente fuori dalle regole, che soltanto con una buona dose di approssimazione si può definire teatrale. Parodia definiva la scrittrice La serata a Colono. Per dire l’atteggiamento con cui la contemporaneità (quella degli anni sessanta in cui scriveva Morante, e il dato storico non è del tutto secondario se si guarda ai “felici pochi” e agli “infelici molti” di un altro tratto del poema) sta di fronte al mito tragico, qui evocando l’ultima stazione della vicenda di Edipo, l’approdo al luogo sacro dove finirà la vita e troverà sepoltura l’uomo che si è fatto esule e cieco davanti alla scoperta della propria colpa, causa della peste che ha colpito la città.

    È l’antefatto che si legge in cima al testo e sul fondo del teatro Carignano dove Mario Martone e Carlo Cecchi hanno portato sulla scena per la prima volta il testo, ripubblicato per l’occasione da Einaudi. Qui comincia il teatro, come deve essere.

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    Teatrale, e certo una delle invenzioni più riuscite dello spettacolo, è il coro di malati mentali che si sparge per la sala prima ancora che si spengano le luci, sotto gli occhi di tre svogliati guardiani che se ne stanno seduti sul bordo del palco, a fumare o leggere il giornale. Si muovono in preda a una sorta di ansia, ognuno perso in un proprio personale delirio, che trova sfogo nella frase che ripetono ossessivamente, senza distinguere fra privato e pubblico, senza cercare una risposta fuori di sé. E questo loro psicotico moto perpetuo inevitabilmente chiama l’idea di un dantesco girone infernale. E un inferno lo è, a suo modo, questo reparto ospedaliero dove il vecchio Edipo giunge legato su una barella, gli occhi da una benda insanguinata, accompagnato da una ragazzetta che si tira dietro un grosso fagotto. O per meglio dire si sta su una soglia (siamo non a caso in un corridoio al pianoterra dell’ospedale, ché non c’è un posto libero nelle stanze). Luogo di confine fra la vita e la morte, fra questa parvenza di vita e il buco nero di un altro luogo, più sotterraneo, di cui si scorgono solo le lunghe ombre che proietta su una parete.

    Siamo dunque propriamente nel territorio del tragico, laddove l’uomo si affaccia sul mistero di ciò che è inconoscibile – dove sono? chiede di continuo Edipo. E risuoneranno infatti a un certo punto le parole che in maniera più radicale danno voce a questo sentimento di precarietà assoluta Meglio sarebbe non essere nati. Così come alla fine saranno i versi di Hölderlin a suggellare il trapasso di Edipo. Ha un bel dirgli che le malattie non sono colpe, la ragazzetta che si chiama Antigone. Lui ormai fa tutt’uno con il suo dolore.

    Lei, Antigone, un’efficace Antonia Truppo, selvatica come richiesto dal testo, ben lontana dalla giovane donna che a Tebe terrà testa al potere dello zio Creonte, parla una lingua povera, imbastardita da forme dialettali di ascendenza meridionale senza tuttavia elevarsi a dialetto, alla ricchezza di una lingua regionale. Ed è il punto che più fa attrito con una sensibilità attuale, la ripetitività ossessiva di questa lingua che vien prima della omologazione televisiva, anacronistica solo in rapporto al nostro tempo. Ma ciò che conta, ciò che preme a Morante, è evidentemente fissare un registro basso (sta anche in questo la parodia, in quanto stravolgimento del modello testuale) che faccia da contrappeso alla parola di Edipo – Bachtin avrebbe parlato di scoronamento dell’eroe. Di emozionante altezza poetica. È la stessa dialettica che si stabilisce fra la realtà attuale della scena e gli slittamenti del protagonista in una realtà altra, di cui possiamo avere una percezione frammentaria, ci accorgiamo, proprio per il tramite di quel corale borbottio lamentoso che diventa urlo straziato, fino a identificarsi con le voci di dentro dell’uomo che sta sdraiato sotto un gelido neon, in una prospettiva quasi caravaggesca.

    SERATA-A-COLONO-2A ondate successive quelle voci percorrono la sala teatrale, fino a prendere possesso del palco dove cala dall’alto un grande disco luminoso, simulacro di una religione solare che non è soltanto luce e bellezza. Come sull’isola shakespeariana, popolata di arie misteriose, anche qui siamo di fronte a un naufragio. E a un sapienziale mutamento dello stato di coscienza. E acquistano allora uno spessore quasi ballabile le musiche di Nicola Piovani, suonate da due musicisti in scena, fin lì inutile sottofondo decorativo delle parole di Edipo. Giacché il concerto cui forse alludono le casse acustiche disseminate sul piano scenico è quello della parola, nel suo senso più materiale. Che Carlo Cecchi sia un maestro dell’arte scenica, nel solco della grande tradizione in cui s’incontrano Eduardo e Carmelo Bene, non occorre ripeterlo. Qui offre una prova magistrale nella costrittiva immobilità cui è ridotto, che vuol dire la rinuncia a ogni appiglio del mestiere – ma basta poi un gesto minimo della testa per animarla. Per due volte si presenta accanto a lui l’enigmatica figura in veste di suora di Angelica Ippolito, tutt’insieme madre amante e sorella e soprattutto prefigurazione di una morte dolce. Sono due passaggi di intensità straordinaria. Teatro, appunto. E alla fine si resta lì, con quelle parole che girano nella testa, mentre le voci si allontanano e su un sipario si colorano sette porte che non sono quelle di Tebe. Quando cala, non c’è più nessuno.

     

     

     

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