• L’orientamento trasversale della scena performativa di Dimitris Papaioannou

    Ci vuole un grande palcoscenico come quello del teatro Argentina, a Roma, per accogliere convenientemente il grande vuoto in cui si dispiega l’acclamato Transverse orientation di Dimitris Papaioannou, già passato nei mesi scorsi a Napoli e Torino. Il regista e coreografo greco – ma sono categorie invecchiate e chissà quante altre cose ancora è Papaioannou – è il nuovo astro di una scena performativa internazionale che dal nucleo generativo del teatro di danza (qualcuno nella sua compagnia viene da quella di Pina Bausch) sconfina voracemente nelle arti visive più contaminate del presente, però con un occhio rivolto all’indietro. Dove dunque possono convivere Matthew Barney e Botticelli e l’eco barocco delle musiche di Vivaldi e Robert Wilson si incontra con l’arte povera. Sarà questo l’“orientamento trasversale” del titolo? Un volare diritto come fanno gli insetti tenendo come punto di riferimento una lontana sorgente luminosa. Un tempo si sarebbe parlato di un “teatro immagine” pieno citazioni cinematografiche, ma anche questa è una definizione invecchiata che serve a poco.

    Foto di Julian Mommert

    Lo spazio vuoto è chiuso da una parete bianca, dove da un lato è ritagliata una porticina e dall’altro è appeso un neon che sfrigola pericolosamente quando si accende. Dalla porticina escono una alla volta una serie di figurine nerovestite che recano al posto della testa una piccola sfera. Ed è inevitabile pensare a Giacometti ma tradotto in una sorta di onirica comicità. Si affaccendano di qua e di là senza uno scopo preciso, danno testate al muro con quella loro appendice sferica, portano in giro una scala metallica che si piega per assumere conformazioni imprevedibili, prima di uscire là da dove sono venuti. Quando rientrano, sempre tutti correttamente vestiti di scuro, diventano sagome umane che si stagliano sulla parete di fondo, in una bicromia che si fa chiave figurativa conservata per tutta la durata dello spettacolo, anche spesso esaltata in controluce.

     

    Ma il cardine figurativo di Transverse orientation è il grande toro nero che viene accompagnato in scena a passi lenti dai performer. E quando uno di loro si spoglia degli abiti e balza sull’iconico animale in una sorta di danza o di esercizio ginnico, diviene chiaro il richiamo agli affreschi del palazzo di Cnosso a Creta, il centro della lontana civiltà minoica. E del resto, a conferma di una inevitabile passione per la mitologia greca, ecco anche l’evocazione visionaria del Minotauro nato dall’unione della regina Pasifae con il toro divino.

    Intanto sulla scena si succedono gag da atto senza parole beckettiano, venate da una sottile crudeltà però mantenuta sempre su un piano di ironica leggerezza. Compaiono brandine metalliche che si trasformano in strumenti di tortura in cui gli attori restano intrappolati. Si moltiplica l’immagine mostruosa dell’ibrida creatura a quattro gambe formata da due corpi intrecciati da cui emergono il busto e le braccia. La porticina comincia a sputar fuori massi squadrati di tutte le dimensioni che vengono prelevati e ammassati per costruire una sbilenca torre destinata inevitabilmente a crollare. Del mito insomma Papaioannou mostra soprattutto le rovine. O la capacità delle rovine di sottrarsi al restauro per rivelare uno scarto nella fragile realtà del tempo. Come forma di resistenza alla dittatura di un eterno presente.

    Non è un caso forse che a emergere alla distanza sia l’algido erotismo della sua attrice simbolo Breanna O’Mara. Si sdraia anche lei, pelle contro pelle, sull’enorme toro. Incorniciata dentro una sorta di conchiglia incarna una figura materna che svuota il suo seno da un liquido lattiginoso. Diventa una divinità zampillante a cui tutti si abbeverano come a una fonte perenne. Mentre un altro attore attraversa la scena nuotando con tanto di pinne. È il preludio a un finale sotto il segno dell’acqua che tracima mentre le tavole del palcoscenico vengono lentamente smontate, lasciando alla vista una superficie lacustre. Ultima immagine in questo gran contenitore di immagini, che spetterà poi a ogni spettatore ricomporre in un montaggio personale. Come ha da essere a teatro.

     

    © Gianni Manzella

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