• Sono apparso a Carmelo Bene. Vent’anni dopo

    La voce di Carmelo Bene. Quel vortice di fremiti, trasalimenti, impasti rochi, bisbigli, bassi ostinati che ci innamorava. Ne ho parlato altre volte. Ora, che l’assenza è diventata perdita, ne resta come un’eco. Come una risonanza, che non si spegne. Non c’è bisogno di una registrazione per risentirla, così unica e imitata. Ci sarà un tempo per parlare della dissipazione della poesia teatrale vissuta da una generazione, ora mi è più facile parlare di Bene dal punto di vista dello spettatore. Lo spettatore per Bene.

    Ho ritrovato una frase posta quasi a epigrafe di un libro che lo coinvolgeva. Dice: “Se C.B. non esistesse, il teatro italiano sarebbe orfano”. Ci si può dunque sentire orfani di un padre inesistente? (E poi C.B. ha sempre rifiutato la paternità).

    Un senso di orfanezza poteva essere il sentimento di chi si affacciava al teatro fra la fine degli anni sessanta e i primi settanta. E non l’aveva trovato. L’esplodere di politicità che in quel ’68 non risparmiava nessuno, aveva toccato anche C.B., dopo il Don Chisciotte felicemente fallito insieme a Leo de Berardinis e Perla Peragallo. Si era ritirato dalla scena. Altri lo avevano fatto. Così per molti il primo incontro con C.B. era avvenuto per il tramite dello schermo cinematografico. (Certo col senno di poi si sarebbe capito che anche il suo cinema è teatro).

    Restava allora una sorta di nostalgia per quella prima delle tante vite di C.B. che si poteva soltanto sognare. Il frenetico affastellarsi delle prove degli anni sessanta del suo avvento romano, al teatrino di vicolo del Divino Amore, nel trascorrere da Majakovskij alla Manon dell’abate Prevost e dagli amati elisabettiani a Pinocchio, con quel gusto barocco per l’immagine di cui ci resta una traccia nella manciata di film girati in pochi anni, e ancor oggi bellissimi a rivederli. Gli anni della genialità. Giovanili per definizione, giacché il genio non ha da maturare, non è nemmeno precoce: il genio è.

    Con questo sentimento si scrutano le immagini giovanili di Hermitage, enigmatico cortometraggio degradato a “prova di obiettivi” che anticipava il suo cinema e sembra già contenere il teatro a venire, con quel letto sfatto e le grandi rose azzurre e i pieni della musica operistica e le ripetute vestizioni e svestizioni. E Lydia Mancinelli già madonna dorata con la fissa delle apparizioni. E lui ragazzo arrogantemente majakovskiano.

    Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. C’è qualcosa di insolente e insieme di umile nelle parole d’apertura del ritratto autografo posto a prefazione delle “opere” pubblicate in volume. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento, postillava C.B. Sublime insolenza e umiltà. Conviene dirlo senza giri di parole, ora che il grande attore ha raggiunto il silenzio che da tempo perseguiva: nel teatro italiano del Novecento C.B. è stato per davvero la genialità. Unica, irripetibile. Non l’impasto superficialissimo di genio e sregolatezza che così facilmente gli si poteva attaccare addosso. Al genio rivendicava con ragione il rigore. E a sé, semmai, l’ambizione di diventare cretino, perseguita già in una memorabile pagina di Nostra Signora dei Turchi, romanzo giovanile prima di diventare teatro e cinema. Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e cretini che la Madonna non l’hanno vista mai, ricordate? Non a caso avrebbe più tardi dedicato altre pagine visionarie a Giuseppe Desa da Copertino, il santo che volava “a bocca aperta”, quasi un genius loci di quel suo sud estremo, religioso e blasfemo, la terra d’Otranto della sua nascita e della giovinezza.

    Viene in mente per molti versi un altro geniale giovane che più o meno negli stessi anni compiva lo stesso percorso di negazione dello spettacolo, in una minuscola sala teatrale di Polonia. Anche la prolificità delle sue prove, in quel primo decennio di creatività frenetica, appare del tutto speculare alla rarefazione con cui Jerzy Grotowski componeva i suoi lavori, all’epoca del Teatro Laboratorio. Spettacoli letteralmente buttati via, quelli di C.B., perché quel che contava già allora era il teatro che l’artefice incarnava sulla scena.

    Il teatro non lascia “opere”. Il teatro è nell’atto, nell’immediato.

    E invece lo si era voluto leggere per lo più come un caso singolare, agli inizi, un clown non privo di un certo talento istrionico e non piuttosto una vera e propria rivoluzione scenica. Altro che avanguardia. Anche perché il giovane attore transfuga dall’Accademia si esponeva in maniera deliberata sulla scena, a volte anche nei commissariati, non rifiutando di essere personaggio. Sicché, mano a mano che il senso della sua ricerca si andava precisando, era andata anche crescendo l’ostilità nei suoi confronti, gli attacchi livorosi degli imbecilli dai giornali benpensanti, conditi altrimenti da una sorta di divertita condiscendenza per un lavoro che faceva comunque scalpore.

    Piuttosto l’inevitabile rilievo dato all’arte scenica comportava il silenzio su altri tratti di un fare artistico che dilagava dalla scrittura alla macchina da presa. E forse anche da questa intima consapevolezza, o insoddisfazione, era nato il suo progressivo ritrarsi. Veniva da pensare a Beckett, da ultimo, davanti a C.B. Come il mago irlandese, anche il mago salentino si era avviato verso il vuoto, verso il nulla. Da vent’anni e più i suoi radi spettacoli, le sue apparizioni dovremmo dire, erano testamentarie dichiarazioni di morte del teatro che celebravano sontuosamente il teatro proprio nel momento in cui lo negavano. E intanto il divino briccone inventava formule ingannevoli (la phoné, la macchina attoriale…) per sviare i suoi provvisori esegeti e gli affezionati spettatori. Teatro e non rappresentazione, certo. Ma quella non c’era mai stata, grazie al cielo. Nemmeno ai tempi in cui “toglieva di scena” Shakespeare nel chiaroveggente intervallo fra veglia e sonno.

    Teatro della generosità. Così potremmo definire la seconda vita di C.B. Quando dopo cinque anni era tornato in teatro, con una nuova edizione di Nostra Signora dei Turchi, era stata subito bagarre con il pubblico degli abbonati. E quella rivolta era stato forse l’unico momento in cui quel pubblico era stato vivo. Giacché come c’è un teatro morto, c’è anche uno spettatore morto evidentemente. (E che il teatro morto seppellisca i suoi cadaverici testi, non ce ne potrebbe importare di meno). 

    Lì aveva voluto portare la sua sfida, fra i velluti e gli ori dei teatri di tradizione, divenuti teatri di convenzione, fra gli spettatori addormentati nel sonnolento rito serale. Una vera e propria cura di rianimazione, col viatico di (anzi “da”) Shakespeare. Ed ecco la funerea evocazione di Romeo e Giulietta fra i calici di una smisurata tavola imbandita. La sfida di Riccardo III a un coro femminile che lo soffoca di sensualità. L’Otello riverso sul letto dove tutto è già accaduto, dove il Moro impallidisce a contatto di un vampiresco Jago, e non può dunque che continuare a uccidere Desdemona: “Conviene che tu muoia di tanto in tanto”. Da ultimo il Macbeth rimasto solo con la sua lady nella camera da letto che rimbomba dei colpi della storia.

    Certo la richiesta di C.B. è alta. Chiede uno spettatore critico, anzi: uno “spettatore estetico”, cioè a suo modo artista, capace di sognare un proprio spettacolo. Se l’attore è colui che è capace di agĕre, cioè letteralmente di “portar via” lo spettatore, da un’altra parte, perché l’evento si compia è necessario anche uno spettatore che sia capace di farsi portar via. Disposto a essere posseduto, giacché non c’è niente da capire. Lì comincia la partita doppia dello spettatore: essere nel “qui e ora” dell’evento e però continuare poi da solo il proprio gioco. Là dove risuona il grido di Rimbaud, io è un altro.

    In questo C.B. appartiene in pieno alla tradizione novecentesca. La tradizione della grande riforma del teatro che nasce idealmente con la messinscena del Gabbiano al Teatro d’arte di Mosca. Per usare una facile formula, la tradizione dell’altro e dell’oltre. È la fine del primo atto, ricordate la situazione? Sulla scena un piccolo palco dove la ragazza Nina recita il dramma scritto per lei da un giovane che sogna “nuove forme”. Nessuna scenografia. Al di là del palco si vede un lago. Gli eretici maestri del Novecento hanno guardato tutti verso quel lago, a quell’oltre che sta al di là del palcoscenico. In quell’oltre hanno cercato l’altro di un’identità in crisi.

    C.B. ci dice che l’altro è lì su quel palcoscenico. Che lì lo spettatore deve trovare da sé il proprio altro. Senza possibilità di rispecchiamenti, di catarsi o di consolazione.

    (Qui una citazione, da La voce di Narciso: “Il grande artefice è di per sé disobbediente, e la sola traccia che lascia nello spettatore “informato”, è un divenire in malessere, una temporanea (breve) disinformazione del vivere sociale, una pura vaga tentazione a sentirsi trasgressori di chissà che cosa. Sì, la scena del dispiacere comunica soltanto insicurezza; una strana incertezza tende i nervi dell’attenzione fisica in platea”).

    Ma ormai non era più tempo di “spettacoli”. Erano concerti le sue diradate apparizioni. Macchine sonore dominate dalla voce solista dell’artefice, la sua straordinaria vocalità esaltata dall’uso creativo dell’amplificazione. E non solo da quando, alla fine degli anni settanta, col Manfred da Byron e Schumann, C.B. sembrava fissare un modello, una modalità creatrice, un modo di essere sulla scena che aveva imposto anche l’immagine romantica del protagonista, la candida camicia byroniana già indossata dal suo Riccardo III. Fonte originaria poi, quell’opera approdata anche alla Scala, di una serie di incursioni fra poesia e teatro, da Majakovskij ai “quattro diversi modi di morire in versi” dei poeti della rivoluzione sovietica; e Hölderlin e Leopardi, Kleist e gli “stralci e varianti” dei Canti orfici di Campana, assunti come base per ricostituire un proprio testo che col procedere degli anni e delle letture teatrali si fissa in una sorta di testo secondo, di riscrittura parola per parola secondo la celebre metafora di Borges. 

    Concerti sono da lì in poi anche gli “spettacoli” che precipitano nel non luogo del teatro, gli eterni ritorni a Pinocchio, all’Amleto di Laforgue trasformato in una musicalissima suite per voci e rumori, capace di dilatare ogni nonnulla in un boato in progressione con lo scivolare dell’artefice verso l’immobilità.

    Ma già prima. Provate a riascoltare la meraviglia del Romeo e Giulietta radiofonico del ’76. Una sinfonia di voci. È che già allora era ben chiaro che la rappresentazione è proprio finita, che non c’è più niente da interpretare. Niente da descrivere e da disquisire, niente da moralizzare. Shakespeare o Musset poco importa. È solo un inservibile copione. Ogni gesto è diventato inutile. La vicenda è conclusa, si può solo continuare a sognarla, riviverla in una funerea veglia alcolica. Il gesto è dato, è detto. Si tratta di raggiungerlo, per l’attore che sta sulla scena: solo col suo agĕre. Come il protagonista del suo Lorenzaccio, che a metà degli anni ottanta apriva un altro momento di straordinaria felicità espressiva. Una terza vita, la sua discesa nel silenzio. 

    Lorenzino de Medici vuole passare alla storia come un nuovo Bruto, si è proposto di uccidere uno dei tanti tiranni del suo tempo. E per tessere la sua rete esemplare si è messo al suo servizio, ne è diventato il ruffiano, si è fatto complice dei suoi crimini, ha indossato una maschera di effeminata impotenza. Ma questa discesa all’inferno delle passioni umane svuota improvvisamente il suo gesto. Perché agire, e per chi, in un mondo di pochi colpevoli e molti indifferenti, di ribelli a parole e di rassegnati a farsi corrompere? E che cos’è allora la storia? E che cos’è l’attore che di quella storia si fa maschera? 

    La vicenda è già consegnata alla storia, la racconta a sipario ancora chiuso una voce registrata con le parole dell’antica cronaca di Benedetto Varchi: il tiranno è stato attirato nella trappola preparata da Lorenzo e pugnalato. Davanti, in quella che nel teatro all’italiana è la fossa dell’orchestra, stanno microfoni, oggetti, attrezzi. Strumenti del mestiere di un rumorista cui tocca recitar la Storia dentro una ingombrante armatura. Vuota armatura: una calza copre il suo volto, lo rende invisibile come in una convenzione di teatro orientale, mentre si dà a maneggiare con quanto più fracasso possibile quella sua professionale attrezzeria. Rumori di ferraglia, colpi battuti a terra, il cigolare di una finestra e gli altri suoni come da testo, grugniti animali amplificati da quella fonica che trasforma in boato il rompersi di un vetro. Ma ancor più fragoroso è il silenzio che riempie invece la scena, dove si affastellano in calcolato disordine, fra tavoli e poltrone, gli oggetti di un lavoro domestico, la macchina da cucire Singer e i manichini da modista smessi e finiti in soffitta. Luogo segreto in cui rinchiudere le proprie ossessioni, in cui avvilire la propria virtù per poterne sopportare l’urgenza.

    Gioca a recitare Lorenzino, mettendo sulla calzamaglia gli accessori del proprio feticismo: un largo cappello con la veletta, la giarrettiera con un fiore rosso, il reggicalze. Gioca per esempio a vestire i panni femminili di sua zia, la virtuosa Caterina, l’ultima delle tante su cui ha messo gli occhi il tiranno. Un gorilla nero, questo, sempre intento a alimentare con un meccanico e mai soddisfatto autoerotismo la sua animalesca sensualità. Così lo vede, e si vede essendosene fatto complice, dentro il grande specchio che si apre letteralmente sul fondo. Sempre pronto ad afferrare qualunque cosa gli piova dalla scena per farne oggetto di improbabili pratiche sadiche. Ubbidiente anche a quel che si vuol da lui, come agli ordini di un invisibile “regista” che ne legge la parte già scritta nella storia. 

    Ma dalla scena non viene un suono. I piatti che fuori si infrangono rumorosamente, lì affondano come dentro un acquario. La quarta parete c’è davvero, anche se invisibile: all’attore che armato di torcia si affaccia in proscenio tocca rendersene conto. La voce di C. B., quella anonima degli altri personaggi, risuona a tratti fuori campo ripercorrendo le scene della tragedia. Smontate e rimontate, ma più che altro citate. Già dette anche quelle come la storia. Recitarle è impossibile. Neppure ce la fa, l’attore, a star dietro a quei rumori, che ribaltando una nota legge fisica vanno più svelti dell’immagine, del gesto. Che del resto lui può soltanto parodiare, armato com’è di piumini da polvere, di ferri per far la maglia. Unico premio ai suoi sforzi uno svenimento ogni tanto. Anche quando alla fine si getta contro quello specchio, come a volerlo attraversare, sarà il rumorista in primo piano a spaccarlo con la testa.

    Questo e nient’altro è il teatro insomma: uno spazio di silenzio che sta fra il rumore e lo specchio che ne rimanda un’immagine deformata. Uno spazio che lentamente si svuota, segnando così il tempo dello spettacolo. 

    Di più, C.B. esclude in partenza qualsiasi tentazione extratestuale. O sottotestuale. Ci mette a forza di fronte all’abisso incolmabile che sta fra lo scritto e il parlato. Nel suo dire non c’è altra intenzione che il dire stesso. Quello che conta è il gioco del suono. Dove le parole si smarriscono. Ne resta la nostalgia e il desiderio. Attore e poeta sperimentano la lontananza, il distacco, l’oblio. Laddove la lingua si fa straniera. L’oggetto artistico non va svelato, deve essere consegnato dentro il velo che lo copre, aveva intuito Walter Benjamin. Nel segreto della sua bellezza.

    Foto di Roberto Grazioli

    Eterni ritorni. Per tutta la vita C.B. ha inseguito tenacemente i suoi eroi d’elezione. L’Amleto laforghiano che ha preso gusto all’opera, artista per vocazione e destino in fuga dalle strettoie della storia. Il burattino Pinocchio refrattario ai codici del mondo cosiddetto adulto. E l’enigmatico Achille che sembra un po’ racchiudere anche gli altri due, nel gioco della maschera guerriera con cui copre la propria indifesa umanità. Eroe invulnerabile, il semidio dai furori infantili, in realtà vulnerabilissimo, ferito a morte in vita dalla beffa di una immortalità incompiuta, In-vulnerabilità d’Achille dice il titolo dell’ultima apparizione dell’attore, una “impossibile suite” che rinnovava i motivi dei due precedenti incontri. Non la rilettura del mito e nemmeno l’evocazione dell’eroe, piuttosto la ricerca nostalgica dei resti del mito, fra Ilio e Sciro, su un campo di battaglia disseminato di corpi fatti a pezzi che sono però monconi di bianchi manichini, un cimitero di fregi marmorei e colonne monche, su cui svetta una figura velata. Dove un attore cerca quel che resta dell’eroe e trova un morto, cioè un testo.

    Così ti accorgi che il concerto è precipitato nel silenzio, con sconcerto (davvero) ti ritrovi a ascoltare il silenzio che risuona amplificato nella sala del teatro. Mentre lui, l’artefice, lascia appena cadere l’accenno di un gesto, di un tono di voce. Un tentennare del capo. Uno spalancare d’occhi. Un buttar via quel che si ritrova per le mani. Perché solo da questo azzeramento può rinascere la parola. Solo allora comincia a nascere, quando è detta. E allora è Kleist che lì ci viene incontro. La favola sconvolgente e rovesciata di Pentesilea, la regina delle Amazzoni che vuol celebrare sul campo di battaglia le nozze con l’eroe, dove sconvolta ucciderà e sarà uccisa dal suo stesso gesto. O meglio, quel che ci arriva sono i bagliori di un testo frammentato, la caotica epifania di un mondo qui convocato, mentre la voce va in crescendo e ritorna giù, sale nell’accentazione di una sillaba, si appiattisce, prova l’accenno di un canto. Accenti conosciuti, che ogni volta tornano come un dono allo spettatore che Carmelo Bene non vorrebbe affatto coinvolgere ed è coinvolto suo malgrado dall’arte della scena. Perché naturalmente l’attore tramite Achille parla anche di sé, della propria vulnerabilità, della vergogna di stare sulla scena che è connessa all’arte, al mostrarsi. Bisogna travestirsi per partecipare ai giochi di Dioniso. Dell’attore conosce la buffoneria, Amleto e Pinocchio gli stanno al fianco.

    Il burattino di Collodi resta l’alter ego elettivo per C.B., per l’uomo di teatro geniale e per il personaggio pubblico che si diverte a gettare fumo negli occhi. Lo è nel gusto del gioco, della beffa che giustifica la predilezione dell’attore per un dimenticabile copione come La cena delle beffe di Sem Benelli che però gli consente di rilanciare la riflessione sull’azione impossibile, come nel romantico Lorenzaccio, come nell’Amleto parallelo della Hommelette. Se non si sapesse troppo bene che questo teatro “non si può più fare”, semplicemente si gioca a recitare. 

    (Qui siamo piuttosto a metà strada fra l’ospedale di Charenton dove il marchese di Sade mette in scena la persecuzione e l’assassinio di Marat secondo Peter Weiss e quelli di Rodez e di Ivry che accolgono gli ultimi bagliori della creatività di Antonin Artaud. Siamo alla rappresentazione di una rappresentazione impossibile, alla prova della tragedia, alla stanca evocazione che attinge ai fogli del dimenticato copione e subito li butta via. E tanto basta. Si sdilinquisce l’interprete di Ginevra tutte le volte che Carmelo-Giannettaccio riprende a dire di come lo conciarono i suoi nemici, delle lame che gli infilarono nella carne, del tuffo nel fiume). 

    Uno spettacolo bellissimo, questa Cena delle beffe. E non della bellezza calligrafica, un po’ estenuata e accattivante che qualcuno vi aveva letto. Bello della bellezza che inquieta, che lascia un gusto amaro dietro al piacere dell’occhio. Senza alcun compiacimento manieristico. Velenoso insomma. Capace di catturare lo sguardo dello spettatore fin dal nitore severo e abbacinante della scena, il nero contenitore dove sono proiettati i tre protagonisti, inchiodati alle sedie a rotelle, e i due serventi androidi che ne guidano i pochi movimenti. (E’ tutta qui la trasgressione? Verrebbe da dire che siamo al contrario nel pieno della classicità novecentesca, a un passo da Samuel Beckett: ricordate Winnie sepolta nella terra fino alla vita al centro della scena di Giorni felici? e siamo ancora ai testi più “tradizionali” del mago irlandese). 

    Uno spettacolo a orologeria. Un giocattolo di minuziosa precisione e di antica grazia. Non ce lo dice forse quella sua musica da carillon? Ma come un ordigno a orologeria, pronto anche a esplodere. Il robot tonitruante che dice a richiesta le battute ormai indicibili che furono di Amedeo Nazzari è in fondo la versione da futuro passato del Capitan Fracassa della Commedia dell’arte; reversibile come i robot “giapponesi” ma per evocare sul finale l’orrore di una sedia elettrica.

    Potremmo leggerlo come un grande balletto, a dispetto di una costrizione del movimento che arriva all’immobilità. Un balletto inventato da un Čajkovskij di fine Novecento che sull’onda di un ultimo valzer rimpiange il movimento negato. E di questa negazione costringe a prendere atto, come attraverso quel vero e proprio attentato al voyeurismo dello spettatore che è il denudamento estremo e frustrante, strato di pelle su strato di pelle, della bella Ginevra, viso da fata turchina su corpo rinascimentale.

    Ma non c’è dubbio che al fondo di tutto resti proprio Amleto. Se ne contano (almeno) cinque edizioni sulla scena, oltre alle versioni per il cinema e la televisione. Fino all’emozione estrema di quell’ultima Hamlet suite al teatro romano di Verona, ormai ridotta quasi all’immobilità sotto il disco rotondo della luna, piatto e giallo nell’ultima luce del tramonto: la luna di Salomè, contro cui ci si poteva aspettare di veder sorgere il corpo affilato dell’omonima Donyale, uscito dal più visionario dei suoi film. A quel vortice di fremiti, trasalimenti, impasti rochi, bisbigli, bassi ostinati che continuava a innamorarci. Tanto da assumere il senso del riepilogo di un destino personale e al tempo stesso di quello dell’artista, del fare artistico. Non a caso le suggestioni offerte si dilatavano ben al di là di un unico testo nello spazio preparato della scena, nel calcolato disordine della provvisorietà dell’artista girovago. Le casse del guardaroba teatrale di un altro Amleto, un Amleto di meno, dietro i pezzi di armatura abbandonati da Macbeth. Due leggii all’ombra della strumentazione fonica. Da un lato la sposa ancora col velo nuziale, ma lesta a spogliarsi dell’abito bianco alle note della marcia di Mendelssohn. E in mezzo lui, l’artifex, incespicante fra veli bianchi e brandelli di armatura, tentato a baloccarsi con i pezzi di un manichino, per poi stringerne a sé soltanto il busto, simulacro della donna cui si rivolge. Mentre sfogliava le pagine dello spartito o le buttava via dopo aver letto poche parole dell’inservibile copione, un collage in cui si mescolavano anche lo Shakespeare dei sonetti e Gozzano, lo strapaese e la poesia simbolista. O la lettura freudiana di Amleto come Edipo, in pagine appena sussurrate.

    Si era commosso anche lui, l’artefice, alla fine. Il gesto delle mani che coprono il viso, il malinconico distacco di un “vi invidio tutti”. E aveva ancora una volta ragione, il divino briccone. Davvero siamo felici, oggi, di averlo potuto ascoltare. Ma l’arte è tanto grande e la vita così breve.

    Dicono i versi di una poesia di Emily Dickinson:

    A word is dead  /  When it is said,   /  Some say.

    I say it just  /  Begins to live  /  That day.

    Là dove la parola detta comincia a vivere abbiamo conosciuto Carmelo Bene.  

     

    © Gianni Manzella

     

    NOTA: Questo scritto, nato come intervento al convegno “Le arti del Novecento e Carmelo Bene” svoltosi a Torino nell’ottobre 2002, a sei mesi dalla scomparsa dell’artista, è stato pubblicato nel volume Il sommo Bene, a cura di Rino Maenza, Kurumuny 2019.

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