• Dante all’opera dei pupi. Mimmo Cuticchio sulle vie dell’Inferno

    Fra i tanti progetti generati dalla ricorrenza dei settecento anni della morte di Dante Alighieri, il meno effimero è forse questo composito Sulle vie dell’Inferno ideato e diretto da Mimmo Cuticchio, per una sola sera all’Auditorium romano dopo il debutto a fine ottobre scorso a Palermo, al Real teatro Santa Cecilia. Fin dagli esordi, Cuticchio si è posto il compito di far rivivere il “mestiere” (termine che nel gergo vuol dire l’insieme dei pupi, fondali, cartelloni, macchine sceniche e tutto quanto per un paio di secoli è servito a inscenare il racconto della storia dei paladini di Francia ma che ne denuncia anche il carattere orgogliosamente artigianale) far rivivere quel sapere, si diceva, dentro nuove forme, senza temere la contaminazione dei linguaggi, dalle forme popolari come il melodramma all’ardito confronto con la danza di Virgilio Sieni (il loro Nudità gira ancora nelle sale teatrali). O in questo caso il mezzo cinematografico.

    Eccolo dunque con in mano la spada che è il simbolo del cuntista, al centro del nudo palcoscenico, a raccontare la storia di un personaggio minore dell’Opera dei pupi, di quelli che comparivano solo in due o tre episodi della lunga saga, quando ancora l’intero ciclo si prolungava per centinaia di giornate. Si chiama Ariodante e l’Ariosto ne fa il protagonista della vicenda cupa e fiabesca di Ginevra principessa di Scozia, vittima di una trama passionale da cui la salva l’eroe. Immagina anzi il cuntista, il narratore, che Ariosto abbia volutamente mescolato il suo nome a quello di Dante. E mentre l’affabulazione scivola nel ritmo sincopato del cunto, sembra di tornare indietro di millenni, quando ancora i poemi omerici venivano trasmessi oralmente dagli aedi.

    Foto di Alessandro D’Amico

    Il 15 agosto 778 la battaglia di Roncisvalle, nei Pirenei, segnava la sconfitta dei Franchi di Carlo Magno e la morte del conte palatino Rolando. A mille anni di distanza, quell’epopea rinasce in Sicilia nella forma scenica di un teatro di marionette. Per Marguerite Yourcenar che nella primavera del 1937 assiste a uno spettacolo di pupi siciliani, durante il suo primo viaggio insieme a Grace Frick, è il lascito dei conquistatori normanni e angioini, che fa riscoprire intatto il secolo XII francese. In realtà l’eco lontana di quelle gestes non si era mai spenta nella memoria collettiva dell’Occidente, attraversando i secoli e i paesi in forme poetiche diverse per dar luogo a quel repertorio di storie a cui da ultimo attingeranno i pupari siciliani. Forse è azzardato vedere la guerra contro i mori e le gesta dei paladini come equivalente della guerra di Troia per l’antico mondo greco. È più facile immaginare che il cunto dei cantastorie siciliani rappresenti, nella sua forma pura e arcaica, qualcosa di molto vicino al canto degli aedi con cui si trasmettevano i poemi omerici.

    Mentre lo si ascolta, torna in mente quel che Mimmo Cuticchio ha scritto del padre Giacomo, oprante dalla voce tonante che sembrava quella di un tenore, nel volume in cui racconta “la nuova vita di un mestiere antico”: del resto lui quell’eredità di “figli d’arte” l’ha sempre rivendicata, dopo la ribellione giovanile che l’aveva spinto a eleggere un nuovo maestro, il cuntista Peppino Celano e poi a dar vita a una propria compagnia. E sono ormai cinquant’anni. Il conflitto di allora fra padre e figlio non era solo quello inevitabilmente generazionale fra vecchio e nuovo, tradizione e innovazione, conservazione e rivoluzione. È il conflitto culturale che investe la risposta da dare alla crisi mortale dell’opra tradizionale che si produce a cavallo degli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Quando all’alba del 30 marzo 1948 nasce Mimmo Cuticchio, a Gela, all’interno del teatro dove operava il padre Giacomo, l’Opera dei pupi non era molto diversa da quella vista e raccontata da un viaggiatore inglese all’inizio del Novecento. Henry F. Jones era arrivato in Sicilia su invito di Samuel Butler, perché lo aiutasse nelle sue ricerche tese a dimostrare che l’Odissea era stata scritta da una donna, una giovane principessa vissuta nella Sicilia occidentale, e che i luoghi che vi sono descritti sono quelli che lei vedeva davanti alla costa di Trapani. Vent’anni dopo tutto è mutato, sotto l’urto della televisione scompare il pubblico capace di seguire per centinaia di puntate una saga di cui conosce bene personaggi e storie. Ora il nome di battesimo del nonno l’ha ereditato suo figlio, che da un lato della scena guida l’ensemble musicale che accompagna l’azione.

    Pupo ritrovato fra i pupi antichi che la famiglia conserva, Ariodante compare nelle immagini filmiche di Daniele Ciprì che ci portano all’interno del teatrino di via Bara all’Olivella, a un passo dal teatro Massimo, nel centro storico che i palermitani stanno un poco ritrovando dopo i decenni della fuga fra le brutte palazzine cresciute nei quartieri periferici a lato di via Libertà. Per spogliarsi dell’armatura e passare da lì alla grande scena dello schermo cinematografico. Come sanno i Giganti pirandelliani, quando le luci della ribalta si spengono le marionette si animano di una nuova vita. Ha indossato i panni di Dante e insieme a un Virgilio dalle fattezze di moro si inoltra per la selva oscura cresciuta all’interno del piccolo boccascena, che si apre alla vista della passeggiata di Goethe sul Monte Pellegrino da cui si guarda a quella “città dolente” che è ora Palermo. L’artefice si è fatto da parte ma il suo commento resta centrale, come la sua presenza scenica forte e trascinante, nella drammaturgia curata insieme a Elisa Puleo e all’attore Alfonso Veneroso che in scena legge i versi della prima cantica della Commedia.

    Da lì parte un “grand tour” all’interno e lungo le coste dell’isola, per incontrare Caronte fra Scilla e Cariddi e affacciarsi alla necropoli di Pantalica, dove stanno gli spiriti magni dei poeti dell’antichità. E poi giù nel cerchio dei lussuriosi dove Paolo e Francesca si scambiano un lungo bacio mentre già avanza il braccio armato che li ucciderà. Ecco il supplizio degli avari costretti a spingere pesanti macigni sotto gli occhi di quattro carusi venduti per lavorare come schiavi nella miniera di zolfo di Sommatino. Gli iracondi alle terme di Segesta, i diavoli che popolano la città di Dite, l’eretico Farinata nella cava di Ispica, i violenti contro il prossimo e contro se stessi fatti sterpi come Pier delle Vigne, il cui volto emerge da un tronco mozzo; per arrivare al folle volo di Ulisse davanti al mare di Linosa e al fiero pasto del conte Ugolino.

    Il gran finale rosseggiante porta Dante a fronteggiare un Lucifero dalle grandi ali di pipistrello, l’imperatore del doloroso regno che l’accompagna all’uscita o meglio al ritorno nello spazio consueto. Ariodante ha trovato il suo posto in mezzo agli altri pupi e può ora uscire a prendere gli applausi insieme agli artefici di questo meraviglioso spettacolo.

     

    © Gianni Manzella

     

     

     

     

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