• L’orgia della tolleranza. Lo scandalo proclamato da Jan Fabre

    Sono lì, in mutande e canottiere bianche. In quattro. Saltano, fanno esercizi di riscaldamento. Come prima di entrare in campo, per una gara. Quando infatti in sala si abbassano le luci, si danno con foga agonistica a una masturbazione collettiva. Prolungata fino allo sfinimento, fino alla reiterazione di orgasmi eccessivi. Hasta la victoria siempre. Fra gli incitamenti di altrettanti personal trainer o giudici di gara, dall’aspetto incongruente in quel contesto, coppola in testa e fucili a tracolla. Figure metamorfiche comunque. Un attimo dopo li vedremo abbandonarsi ad altri piaceri sui divani in pelle disposti intorno allo spazio scenico, in un prolungamento stanco di quell’attività erotica, mentre hanno preso a raccontarsi i propri trofei di caccia. In senso letterale, una caccia all’uomo. Quanti ebrei e italiani e musulmani. L’ora del potere.

    Eccolo, il provocatorio Jan Fabre. Ecco lo scandalo con cui si annuncia questa Orgy of tolerance, portata da Romaeuropa al teatro Olimpico, pienissimo di un pubblico più plaudente che scandalizzato. Sesso esibito. Violenze. Perversioni. Immagini blasfeme. Ma è proprio così? Basterebbe l’umorismo con cui sono cucite queste primi immagini a farne dubitare, come ci si poteva aspettare e prevedere. Scordiamoci la provocazione e lo scandalo. Non a caso Fabre fa esplicito riferimento alla comicità dei Monty Python come modello per questa sua creazione.

    Orgy of tolerance è piuttosto, vorrebbe essere con forza uno spettacolo di denuncia, per riprendere in uso un termine uscito da tempo dal vocabolario delle idee correnti. O un lamento, in termini musicali. La denuncia e il lamento di uno stato delle cose, cioè l’approdo a una società (occidentale) dove tutto si consuma in libertà, le merci e le ideologie di destra, le droghe e la pornografia, la moda e il razzismo. In un’orgia di tolleranza, appunto. Shopping & fucking, secondo un binomio già accreditato anche a teatro, dice la donna carica di sacchetti griffati che accoglie il Cristo che torna sulla terra con la croce in spalla e naturalmente non viene riconosciuto, ma può essere trasformato in un personaggio glamour dallo stilista tutto mossette e gridolini. Perché anche i cliché vanno consumati con la stessa libertà e la stessa indifferenza. E se il povero Cristo misconosciuto terminerà il suo calvario contemporaneo con in mano la fiaccola della statua della libertà, la donna potrà anche ritrovarsi a danzare col cappuccio del KKK l’affermazione di una pelle bianca che più bianca non si può.

    I guerrieri della bellezza, come ama definirli l’artista di Anversa, si sono trasformati in terroristi. Con i loro fucili spesso puntati contro il pubblico, azzannano tutto quello che si muove all’intorno. Facendo del politicamente scorretto la regola. Ecco allora partorienti accosciate sui carrelli del supermercato, dove genereranno con dolore merci di ogni forma, dai cibi confezionati ai prodotti per la lavatrice, in una scena degna dell’empito anticonsumista di un Rodrigo Garcia. E poi far danzare quegli stessi carrelli sulle note del valzer di Strauss, come potrebbe ben immaginare qualche pubblicitario. E protesi sessuali scodinzolanti o brandite come nasi per inevitabili sniffate, dopo un passaggio in gallerie d’arte. E una neonazi russa abbigliata come Charlotte Rampling nell’inquadratura simbolo del Portiere di notte, il film della Cavani, a blaterare che il nazismo è più sexy del comunismo. E pratiche di autoerotismo manageriale solitarie e dolorose. Perché alla fine si torna sempre a quell’impulso erotico divenuto performance sportiva, da consumare su quei divani. Chesterfield naturalmente, non dei sofà qualsiasi.

    Al fondo non può che esserci il gesto anarchico del rifiuto totale. Un fuck you a tutto e tutti, senza distinzioni, bianchi e neri, ebrei e musulmani, attori e pubblico e lo stesso artefice che li sbatte in scena. Liberatorio certo, ma senza sbocchi.

    Orgy of tolerance inscena la difficoltà di mettere in scena uno spettacolo apertamente politico. Perché la sua denuncia, lo scandalo che vorrebbe proclamare, si inscrive a sua volta in quell’universo globalizzato contro cui vorrebbe rivoltarsi. Rassicurante per chi è in cerca di rassicurazioni, perché no. Ma incapace di cambiare il nostro sguardo sulle cose. E devono in qualche modo sentirlo anche i nove interpreti, bravissimi, se arrivati alla fine sentono il bisogno di liberare i corpi in una danza travolgente che fa vibrare l’emozione vera.

     

     

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