• Il segno leggero del vaudeville. La presidentessa secondo Massimo Castri

    Una volontà politica del teatro esiste ancora? E dove possiamo rintracciarla, oggi? Sono domande che ritornano di quando in quando alla mente dello spettatore. E tanto più davanti al lavoro di Massimo Castri che da uomo di libri prima che di scena, in anni lontani, aveva tentato di ripensare la prospettiva del teatro politico, affiancando Artaud ai più prevedibili (e ortodossi) nomi di Piscator e Brecht. Si trattava allora di sottrarre l’ostico termine a una triste accezione di stampo contenutistico o declamatorio. Oggi, ci si interroga su come possa funzionare politicamente la messa in  scena de La presidentessa di Maurice Hennequin e Pierre Veber, uno dei capisaldi del vaudeville di matrice francese e ottocentesca.

    Politica è intanto la scelta di continuare il lavoro con il giovane gruppo di allievi usciti dal corso di formazione voluto da Emilia Romagna Teatro, che produce anche lo spettacolo con cui una stagione fa aveva messo in scena benissimo il pirandelliano Così è (se vi pare), che un sistema teatrale sano avrebbe tenuto a lungo in repertorio. Già lì usando il segno leggero del vaudeville per scardinare la seriosità e il pensoso perbenismo del dramma borghese. E che sia una chiave cara a Castri, è risaputo. A qualcuno non piace. C’è alla base il rifiuto, anch’esso politico appunto, di agire sullo spettatore da un punto di vista emotivo o sentimentale, la volontà di spingere piuttosto sulla sperimentazione linguistica, fare appello a una diversa modalità di comunicazione, che poi vuol dire una volontà di scavo dei mezzi specifici del teatro, linguistici certo ma anche strutturali, organizzativi.

    Forse è proprio la riuscita di quella prova che ha convinto il regista toscano a puntare in alto, a tentare l’allungo diretto all’interno del teatro di genere. Senza filtri o mediazioni, senza coperture culturali. E i maestri insegnano quanto possa essere formativo questo passaggio (si rilegga La mia vita nell’arte di Stanislavskji, nella nuova bellissima edizione curata da Fausto Malcovati). La commedia di Hennequin e Veber (anno di nascita 1912, pochi anni e tutto sarà diverso, come insegnano gli uomini difficili di Hofmannsthal) ha attraversato il Novecento resistendo ad adattamenti e smanie di attualizzazione. E bisogna non farsi distrarre da superficiali analogie con un presente che malamente imita la farsa. Non ci sono escort qui. E non c’entra la satira. Non c’è da attendersi una inoffensiva catarsi che lascia le cose come stanno, a cominciare dal potere messo in burla.

    La vicenda della sciantosa Gobette, che si ritrova per gioco nella casa del presidente di un tribunale di provincia e viene scambiata per sua moglie dal ministro della giustizia piombato lì a sorpresa come l’ispettore di Gogol, finendo per aderire fin troppo bene al ruolo imprevisto, è il pretesto, il lievito che serve a gonfiare il reale fino a farlo esplodere. La presidentessa non è un congegno a orologeria, come facilmente si dice. Può diventare un meccanismo implacabile nelle mani degli attori, se hanno ritmo corale ma anche misura – e pazienza se qualcuno si aspetta la Ferilli.

    L’inizio è infatti difficoltoso, fa attrito con le attese. Sembra di cogliere un eccesso di caratterizzazione in quei quattro magistrati che giocano a carte in toga e tòcco, in quella servetta ebete e rigida. Un fastidioso sospetto di mimesi in quei gesti che ostentano una vecchiaia che non hanno. Ma basta che entri lei e qualcosa già prende a mettersi di traverso, come un vento di anarchia – non è questione di appeal sessuale, non siamo nella pochade, che potrebbe andar bene per Pirandello, ma di grammatica scenica. Ed è poi un crescendo lungo i tre atti ambientati da Claudia Calvaresi in uno spazio unitario, dove solo il mutare dell’elemento di fondo (un camino, la porta girevole di un hotel…) allude a supposti luoghi diversi. Contano di più le porte allineate sui due lati che regolano il meccanismo delle entrate e delle uscite, quel continuo mancarsi su cui è costruito il gioco vorticoso degli equivoci e degli scambi di persona. O il divano che passa inalterato da un atto all’altro, testimone e paradigma dell’orizzonte borghese. Siamo dentro una sorta di acceleratore di particelle sceniche, che proietta l’azione al di là di ogni senso costituito, alla Hollywood party per dire.

    Contano gli attori, si diceva. La verve con cui la protagonista Giorgia Coco si mangia una dietro l’altra le pedine maschili (Alessandro Federico, Michele Di Giacomo, Marco Brinzi) ma non solo – la simpatia fuori misura di Federica Fabiani, la cadenza meridionale di Davide Palla, lo slittamento di Diana Hobel in parti di non grande spessore… È evidente la volontà del regista di proiettare il lavoro degli attori in una dimensione collettiva, rendendo impossibile una adesione sentimentale ai personaggi, tanto quanto una recitazione egocentrica. Altra cosa è interrogarsi sui limiti che incontra oggi un teatro che vuole essere invenzione di un mondo. L’esplosione del reale impone sempre una sua ristrutturazione. E ci chiede di prendere posizione, che è sempre gesto politico.

     

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