• La stanza rossa e la stanza bianca. Delbono torna all’opera al San Carlo

    Era una grande stanza rossa lo spazio individuato da Pippo Delbono per la sua prima prova col melodramma, la Cavalleria rusticana al San Carlo di Napoli. Non la piazza di paese dell’ambientazione verista, del bozzetto tinto di folclore. Al contrario un luogo chiuso, deserto. Come la navata di una chiesa abbandonata, che dietro la rovina lascia intravedere quel che resta di un antico splendore. Il rosso tende a un colore più scuro, un colore bruciato. Un rosso di sangue più che di passione. Sangue rappreso. Dove qualcosa è morto tanto tempo fa.

    Cavalleria 2

    Comincia dalla definizione di uno spazio e di un colore appropriati l’approccio di Delbono alla regia operistica. Nessuna volontà di stravolgere la struttura musicale dell’opera o peggio di modernizzarne il contenuto con qualche trovata esteriore (Mascagni nostro contemporaneo, per carità!). Il melodramma è stato storicamente l’unico teatro nazionale che ha avuto l’Italia a cavallo fra Ottocento e Novecento, l’unico in cui si poteva riconoscere una borghesia che in realtà non è mai esistita in quanto classe. Però mettere in luce la convenzionalità che si proietta nel rito borghese, questo sì. Tanto più in uno dei teatri più grandi e più belli d’Europa.

    “Buonasera, scusate l’intromissione. Sono il regista di questo spettacolo”, dice presentandosi al pubblico che già ha accolto con un applauso il direttore dell’orchestra (è Jordi Bernàcer nella ripresa di questa estate). Racconta due storie legate alla Pasqua, e naturalmente alla sua biografia. Un agnellino di stoffa trovato fra le macerie di un paese distrutto dal terremoto, in Sicilia. Una veglia pasquale insieme alla madre, pochi giorni prima che morisse.

    “Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato”.

    A quel punto l’orchestra può attaccare con l’ouverture e nel pieno orchestrale sollevarsi il sipario su quell’interno rosso scuro, imponente eppure non scenografico, disegnato da Sergio Tramonti. Ma è ancora lui, il regista, che vediamo correre da un capo all’altro della scena e aprire porte nelle pareti laterali, da cui si proiettano tagli di luce, mentre intanto al centro è stato acceso un braciere e dall’esterno proviene un canto siciliano.

    “O Lola c’hai di latti la cammisa…”

    Questa assillante presenza dell’artefice, così come le periodiche incursioni di Bobò (con un mazzo di fiori, con una croce, seduto con la coppola a un tavolino che costituisce l’unica concessione al bozzetto verista…), rompono la magia del rito accettato, la sua consuetudine, la troppo facile adesione al sentimento che esce dalla musica. Con un gesto ricco di un’epicità quasi brechtiana ci riportano alla convenzionalità del fatto artistico. Stiamo di fronte a un palcoscenico su cui ha fatto ingresso un coro di donne vestite a lutto… Dal quale se ne staccano in due. Iniziano un teso confronto.

    Cavalleria rusticana è un claustrofobico dramma di donne. Tre donne che si dannano al cospetto di figure maschili irrilevanti, che hanno bisogno del vino e del coltello per avere un ruolo in commedia. Sai che bel mestiere fare il carrettiere… E l’altro, compare Turiddu, “viva il vino ch’è sincero”, per poi correre dalla madre, che lo benedica.

    Assai maggiore peso ha quel coro che in una sorta di cerchio magico avvolge tutto lo spazio scenico e guarda svolgersi il dramma che in sua assenza non avrebbe luogo.

    Quando entra Lola, con quel vestitino giallo e il soprabito rosso che fanno un po’ malafemmina, è un raggio di luce in quell’oscurità. Fior di giaggiolo, ma cosa c’entra la spensieratezza dello stornello con quel mondo luttuoso, precocemente invecchiato. Quando esce tutte le porte si rinchiudono.

    Allora si capisce che non c’è da aspettarsi nulla che possa deviare dal cammino tracciato. A te la mala Pasqua, inveisce Santuzza contro compare Turiddu, nell’esplodere incandescente di un rosso infernale. E così sia. Finisce con un urlo e nel rosso del sangue.

    A casa, a casa… aveva già consigliato il coro.

    *

    Il bianco di Madama Butterfly è invece un bianco assoluto, privo di ombre. Anche le pareti di quest’altra stanza sono prive di rilievi, di increspature. Una scatola bianca che solo nella fuga prospettica delle sue linee perimetrali mostra una profondità tridimensionale. E però al tempo stesso svela la natura artificiale della rappresentazione.

    Butterfly 1

    Bianco è il colore orientale del lutto ma qui di orientale c’è solo il colore del kimono della protagonista (che poi muterà più volte di colore, diventando come una superficie su cui scrivere il mutare dei sentimenti). Se la Sicilia di Mascagni è convenzionale, che dire del Giappone pucciniano popolato da turbe di geishe e deprecate “bonzerie”. Ma sarebbe troppo facile e in fondo futile prendersela con i pregiudizi razziali di Illica e Giacosa a cent’anni di distanza. Piuttosto l’ambientazione del dramma a Nagasaki ci ricorda che ben altri crimini pesano sulla coscienza dell’Occidente. Altro che le innocue giapponeserie pucciniane, con quel Console che vorrebbe mediare fra due culture inconciliabili, fino a che l’una pianterà la sua bandiera sulla terra dell’altra.

    Di Madama Butterfly si sono fissate nell’immaginario alcune arie, quel “fil di fumo” che un bel dì vedremo levarsi, un Leitmotiv ricorrente nel corso dell’opera; e poi c’è il coro a bocca chiusa del secondo atto…

    Ciò che invece qui si rivela, con un po’ di sorpresa, è che Madama Butterfly aiuta a spiegare la precedente Cavalleria rusticana. Ne illumina una faccia nascosta. E qui entriamo nel cuore delle scelte di Pippo Delbono, in questo gioco di rosso e di bianco.

    Entrambe le opere raccontano la medesima storia. C’è di mezzo una donna – in realtà la quindicenne Cio-Cio-San è poco più di una ragazzina anche per quei tempi – una donna che si è data colpevolmente a un uomo, e per questa colpa non può più, non vuole più entrare in chiesa (Santuzza: Io son dannata…), è stata rinnegata dalla comunità di cui ha violato le regole (Butterfly a Pinkerton: Per farvi contento potrò forse obliar la gente mia – e il Bonzo implacabile: All’anima tua guasta qual supplizio sovrasta!). Ma entrambe sono state poi tradite dall’uomo cui si sono date. Turiddu che comprensibilmente ora corre dietro a Lola; Pinkerton che fa un po’ Corto Maltese con quell’aria da marinaio vagabondo.

    Da questa situazione irrimediabile la donna può uscire solo con la morte, sua o dell’uomo che l’ha tradita – anche qui infatti si finisce nel rosso del kimono (l’ultimo) di Butterfly e della scena.

    Siamo dunque prossimi al territorio del tragico. Qui però le situazioni si aggrovigliano, sembrano incrociarsi. Cavalleria rusticana è dramma corale, tutto avviene in piazza – o in quella chiusa piazza mentale che può trasformarsi in un inferno. Tutto inizia e finisce lì, con un “Ah” del coro. Senza lo sguardo onnipresente del coro non avrebbero senso e luogo né l’auto-esiliarsi di Santuzza – la chiesa in cui si rifiuta di entrare è appunto ecclesia, assemblea in cui si raccoglie una comunità – né la colorata e innocente rivolta di Lola alla luttuosità generale. Dramma borghese per eccellenza, per tematica e morale, seppure velato da una ambientazione umile e popolare, Cavalleria rusticana aspira alla tragedia. Una tragedia che però non può compiersi, a cui il melodramma è storicamente negato.

    In Madama Butterfly al contrario il coro è praticamente assente, non interviene mai e non ha peso drammaturgico, se non come momento coreografico. Madama Butterfly è dramma della solitudine. Tutto si sviluppa attraverso rapporti individuali – Butterfly con Suzuki, con il Console, con Pinkerton… Il potenziale contenuto tragico si ribalta in dramma borghese, su di esso cala con tutto il suo peso il melodramma. Potrebbe essere una Medea, Butterfly; finisce come un personaggio di Ibsen, una Hedda Gabler qualunque che vede svanire il suo sogno e non può sopravvivere a questa perdita, più definitiva di quella di un uomo rivelatosi puro fantasma.

    Dalla solitudine viene il senso di attesa che permea Madama Butterfly. Attesa come immobilità, come mancanza di azione, non l’attesa di un possibile scioglimento. La scatola bianca è già un mausoleo funebre. Il regista che a lungo ha cercato di disturbare questa immobilità, con la sua presenza incongrua sulla scena, non può che chiudere le porte.

    Butterfly 2

    L’approccio di Pippo Delbono al melodramma non mette in gioco alcun interesse sottotestuale – intendendo il sottotesto nella forma più elementare di contenuto latente del dramma, nella prospettiva di un uomo d’oggi (contenuti come l’incesto o lo stupro velati da un matrimonio per burla). Ciò discende naturalmente da un disinteresse dell’artista ligure per un lavoro di drammaturgia su un testo che concerne tutto il suo teatro. Ma rivela anche la struttura chiusa dell’opera in musica con cui si scontra chi voglia oggi mettere le mani sul quel repertorio, l’impossibilità appunto di manometterlo. Ciò che semmai gli interessa è eliminare il sovratesto. Ciò che nello scorrere del nostro tempo è calato sul testo (il naturalismo convenzionale, l’esotismo dell’ambientazione…).

    Delbono opera in realtà come un viaggiatore spaziale che incontri ciò che resta di un mondo lontano che la relatività del tempo ha lasciato intatto. E lo trasporti così com’è, con la sua musica e i suoi costumi intatti, all’interno di un teatro e davanti a un pubblico di oggi. Scegliendo a questo scopo una scatola scenica che ne visualizzi il colore, la tonalità emotiva. Quel rosso, quel grigio, questo bianco. Applausi per tutti, dal direttore Nicola Luisotti alla Butterfly del soprano Raffaella Angeletti che, ci dicono, aveva studiato da notaio.

    E restiamo lì, un po’ muti, a chiederci quanti anni avrebbe avuto Butterfly il 9 agosto 1945.

     

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