• Dove va l’occhio di chi guarda. Una conversazione con Pippo Delbono

    Vorrei partire dal titolo che hai scelto per il nuovo lavoro, Questo buio feroce: da un lato è una formula evocativa che può essere riempita di significati diversi, di fronte allo spettacolo, ma d’altro canto è anche, per chi lo conosce, il titolo dell’ultimo libro scritto da Harold Brodkey, che del resto tu citi esplicitamente. C’è dunque una duplicità di approccio che mi sembra interessante, in rapporto alla secchezza di altre volte. E poi c’è questo oggetto davvero ingombrante, il libro in cui lo scrittore americano malato di Aids racconta la sua morte, o forse bisognerebbe dire il suo morire.

    Il percorso è stato interessante perché da una parte Questo buio feroce parte proprio da questo libro, che ho incontrato in Birmania per una casualità straordinaria. La Birmania è chiamata il “paese del sorriso”, un paese dove la gente, nonostante la dittatura e la povertà, ha una stranissima relazione con gli altri, questi occhi luminosi che ti colpiscono. Ma la struttura è rimasta veramente medioevale, una volta a Rangoon avevo cercato dei libri nella libreria più fornita e ne aveva forse una cinquantina nella lingua locale. Invece in un alberghetto nel golfo del Bengala, dove la luce arrivava solo alle 9 di sera, un amico con cui ero in viaggio tira fuori da uno scaffale un libro in italiano e me lo butta. E mi arriva questo libro che non conoscevo, non conoscevo neanche Brodkey. Leggo nell’introduzione: malato di Aids che muore, dico: bel regalino, se volevi tirarmi un po’ su. L’ho letto, sono rimasto colpito dalla freddezza di un uomo senza “fede” religiosa che analizza in maniera scientifica il suo vedersi morire. Poi l’ho messo da parte, un poco alla volta l’ho dimenticato, le cose si sedimentano. Quando un anno dopo ho cominciato le prove dello spettacolo mi sono detto: “buio feroce”, perché no? All’inizio era solo il titolo, sono andato avanti finché poi mi sono trovato durante l’estate in una crisi: ma di cosa parlo? di cosa devo parlare? Bisogna che cominciamo a prendere una strada. E lì come un colpo di illuminazione ho deciso di tornare all’inizio di tutto, a quel libro di Brodkey, letto in quel luogo.

    Mi chiedo quanto questo corrisponda a un sentimento dello spettacolo, quanto un titolo possa poi giocare nella costruzione dello spettacolo. Anche perché “questo buio feroce” non è semplicemente la morte, è un processo, un andare verso una zona da attraversare, è la perdita dell’identità del soggetto che si guarda morire.

    A un certo punto ne parla, il “buio feroce” è un entrare nella natura. Poi è anche una dimensione di morte, ma paradossalmente anche di vita. Mi ha colpito il fatto che un uomo che si dichiara ateo ha in realtà una spiritualità molto più forte di chi si dichiara religioso, in rapporto col morire. E quindi sono in una fase in cui ho capito di cosa sto parlando e non è poco. Anche poi per come lavoro io, con l’improvvisazione, con un mondo vastissimo di materiali, libri, poesie, idee che mi propongono gli attori. Tutto potrebbe essere, e invece no. Mi piace sempre più la danza, quando mi accompagna in un viaggio della mente, ed è una parte che mi appartiene e non vorrei dimenticare, però d’altro lato mi piace che ogni cosa abbia un suo senso, mi piace capire.

    Quel che dicevo è che i tuoi lavori non sono mai contenutistici: dici “guerra” o “rabbia” o “esodo”, ma poi di quale guerra o rabbia, lasci che sia lo spettatore a riempire lo spettacolo, a metterci la sua guerra, il suo esodo.

    Io però devo dare quel segno preciso allo spettatore – pittorico, coreografico, di parole, di musica – perché comunque possa fare un viaggio all’interno di certe zone. Se vado a vedere una mostra all’interno di una galleria, non ritrovo quel senso del viaggio, ma se in una sala vedo l’opera di Van Gogh faccio un viaggio, Van Gogh mi permette di fare la mia storia. Questo è un po’ uno spettacolo.

    Visto che siamo entrati nel processo costruttivo di uno spettacolo, ti chiedo questo: da spettatore, vedo nel tuo teatro come un’immagine che si dilata e fa da elemento moltiplicatore di altre immagini. Un teatro di quadri emozionali, ma non psicologici – non c’è psicologia nel tuo teatro, perché non c’è rappresentazione. Vorrei capire se questo mio sentimento di spettatore corrisponde realmente a un processo costruttivo e quanto contano invece, in questo processo, il montaggio che fai delle immagini o il principio di sottrazione.

    È nel togliere che trovi l’essenzialità, non nell’aggiungere, nel senso che l’essenziale è un segno che permette di aprire più mondi. In generale, all’inizio c’è molto, ti innamori di più cose, poi bisogna togliere, anche se ti sembra di perdere le immagini che togli, perché erano belle. Poi però scopri che quelle immagini ti distolgono dal filo. Non ti sto dicendo: devi leggere quella figura lì perché quella figura lì è il senso preciso. Però l’occhio deve andare solo lì, se io non so dove va l’occhio di chi guarda non posso far fare un viaggio, né mio né del pubblico. Da questo punto di vista il rigore fortissimo sul lavoro diventa fondamentale. Diventa fondamentale sempre di più il passo, il gesto, il segno, il modo di sedersi, lo sguardo, perché tu non dai il senso, dai degli accenni di senso, ognuno deve ritrovare il suo. Ma le note devono essere precise, non puoi dare un si che un po’ è bemolle, un po’ è diesis. No, è quello e basta. Poi a un certo punto è il modo in cui fai quella nota che dà la possibilità a ciascuno di vivere un viaggio. Io penso che il teatro deve avere quel senso di autonomia dello spettatore.

    Ma questo come avviene? Lavori molto sull’improvvisazione, hai detto.

    Il metodo sta cambiando. Inizio a capire che ho ripreso anche un lavoro sull’ascolto, sul rituale, su un essere maestro all’interno di un gruppo, non lasciando che l’improvvisazione diventi troppo “individuale”. In una prima fase c’è un gioco di improvvisazione, anche di libertà, dove ognuno può mettere i suoi amori, i suoi desideri, la sua ricerca individuale, anche se non gli importa sapere di cosa parlerà lo spettacolo. Devi anche saper ascoltare quel mondo che ti dà delle immagini. Gli attori propongono delle cose, io assegno dei temi, delle suggestioni. Poi però dobbiamo dimenticarci il motivo per cui sono nate quelle immagini, tante non le potremo mai usare anche se sono molto belle. Tutto deve confluire verso un senso dello spettacolo.

    È così anche per la scelta dei testi, credo. D’abitudine eviti il testo pre-scritto ma parti comunque da una molteplicità di “testi”, dove sia Emily Dickinson o una canzone di Jane Birkin, hanno lo stesso peso.

    Il testo per me ha lo stesso peso di una musica, di un’azione, di una canzone, è tutto sullo stesso piano. Ultimamente mi sono anche preso la responsabilità di rifarli miei, nel senso che o li riscrivo proprio oppure li trasformo e diventano testi che posso chiamare “ispirati a”, anche se certe frasi sono totalmente fedeli all’autore. Io non sono capace di fare uno spettacolo che mi trapassi la vita, come diceva Artaud, se in qualche modo non mi appartiene in qualche zona, non sono capace di fare la messinscena di nessun autore. Mi deve trapassare la pelle, allora a quel punto diventano dei viaggi, come è stato Enrico V di Shakespeare, l’unico intoccabile, com’è stato Beckett, com’è stato incontrare Sarah Kane.

    Questa dispersione dell’identità individuale nella natura di cui parla Brodkey è stato anche un tema nella “trama”dello spettacolo? O più in generale, è un motivo che attraversa il teatro?

    Credo che ci sia dentro a questo racconto qualcosa che personalmente ho passato sulla mia pelle e quindi che profondamente sento vera, cioè a un certo punto, quando c’è una forte dimensione di lotta col morire, devi necessariamente andare in certe zone in cui perdi la coscienza del ricordo, la coscienza del tempo, e accettare in profondo il tuo morire, come le foglie. Riuscire ad arrivare a quell’io che si osserva, che cerca di trovare un’armonia anche nel morire. E a quel punto l’entrare nella natura è questo, sviluppare un io cosciente che si osserva, diventa qualcosa che si rapporta col tempo, cioè si rapporta con la relatività del tempo. Noi siamo molto legati agli anni, gli altri vivranno tanti anni e a me tocca di morire a trenta, ricordo che pensavo questo. Però se riesci, in alcuni momenti, non sempre, ad espandere quella coscienza universale, in fondo hai come la coscienza che non fa differenza fra 30 e 60 e 90 anni rispetto ai 1000 e 2000 e 100mila e un milione di anni che è la storia del nostro universo. È un entrare in una natura che ti fa sentire anche la tua piccola morte più piccola. Credo che alla fine, questo spettacolo sia proprio uno spettacolo sulla morte, contro la paura della morte.

    In un altro suo libro, Brodkey parla della scoperta della persona umana come somma di “mente + corpo + io”.

    Dipende se si intende l’io individuale o l’io universale. Se è quell’io che è più profondo della mente, del corpo.

    Credo che si tratti piuttosto di un io individuale.

    Mi chiedo se era già malato, quando lo ha scritto. Perché credo che Brodkey abbia avuto una grande illuminazione proprio quando ha scoperto di avere l’Aids. Credo, da quello che intuisco leggendo, che trovandoti in quella situazione o rincoglionisci, diventi piccolo, diventi violento, oppure sviluppi arte, soprattutto se decidi di scriverla quell’esperienza. E credo che lì abbia toccato delle zone profonde. Però ogni tanto intravedo fra le righe un personaggio un po’ particolare, ricordo un attaccamento a un certo tipo di estetica, di mondanità che adesso trova effettivamente non più valida. Che però è anche bello. Vedi che uno che non è un buddista, non è un induista, non è uno che ha fatto un viaggio tutta la sua vita, continua a mantenere un certo spirito razionale però non si accorge che il suo razionale va inevitabilmente verso uno spirituale, anche se non lo vuole, va verso una religione della vita, anche se non lo dice. Siamo in un momento in cui c’è una tale relatività delle cose per cui parlare così direttamente della morte diventa non solo un atto spirituale ma come un atto politico. È molto più politica quella coscienza che va oltre piuttosto che il politico corrente.

    Tornando al tuo lavoro, e restando però a questo discorso sull’io, osservavo durante le prove un tuo ruolo diverso all’interno dello spettacolo, nel senso che nei tuoi spettacoli ti assegni spesso un ruolo di gran cerimoniere, di artefice dell’evento scenico nel senso reale di ciò che avviene nel momento. Qui trovavo la tua presenza più appartata. Non se questo dipende da una fase del lavoro, in cui devi ancora vederlo dall’esterno per calartici completamente dentro o se invece corrisponde davvero da un bisogno di tirartene un po’ fuori, se si tratta di una volontà di sottrazione dell’io, anche in termini di narcisismo dell’interprete.

    Qui stai toccando un tema che è stato anche il tema critico di questo periodo, conseguenza anche di ciò che stata per me l’esperienza dell’Ecole des maitres. Sono in una fase un po’ nuova, non so dove porterà. All’inizio ero nella fase di tirarmi fuori ma anche di ripercorrere ancora dei modelli che adesso mi stanno un po’ stufando. Il famoso discorso fra la modestia e l’umiltà, che mi piace tanto. L’umiltà è un fatto, è quando ti trovi a non avere certezze; nella modestia c’è qualcosa che non mi convince. C’è stato un periodo, anche perché in compagnia sono entrate persone come Bobò, che un certo virtuosismo ho voluto toglierlo. Ho avuto problemi con l’attore virtuoso, bravo, che me ne importa che dicano bravo. Però d’altra parte adesso mi sta venendo fuori un desiderio, che poi è vitale, di ributtarmi più con un lavoro d’attore, e lasciare un po’ il lavoro di osservatore. Anche il coraggio di prenderti la responsabilità di un’esperienza che è tua. Non posso far finta di nulla, la storia di Brodkey è la mia storia. Mi sembra anche un po’ falso nascondermi sotto, tra l’altro una storia che poi ha portato anche della vita. E allora non posso star qui seduto, non sarei sincero con me stesso. E quindi mi sto buttando, per ora in certe zone in cui ancora sto io, poi chiuderò le porte del tutto e da solo in sala inizierò un viaggio che non è da regista ma da sciamano. Poi lo sperimenterò anche col pubblico. Quindi sono forse ancora più dentro che negli altri spettacoli, però credo fino in fondo, non da speaker che racconta. Non ho voglia di guardare il pubblico. Guardare è già un atto affermativo: adesso vi dico questo. Ho voglia di stare in una mia dimensione e lasciare che gli altri guardino.

    Visto che hai citato l’esperienza dell’Ecole des maitres, vorrei che mi parlassi della tecnica dell’attore. Tu fondi due tradizioni in cui la tecnica è molto importante, per quanto (e proprio per questo) non apparente, non esibita: la tradizione di “terzo teatro” di Iben Nagel Rasmussen e quella di Pina Bausch, molto visibili per altro nell’esito che hai mostrato a Roma del lavoro fatto con gli allievi della scuola.

    Anche lì, parto da una storia. È stata una storia un po’ strana, anomala, l’aver incontrato queste due donne, prima anche Cieslak, tre storie lontane fra loro. Sono stati tre grandi maestri per me. È stata anche la scuola dell’oriente, perché Iben mi ha portato a studiare l’oriente. Poi credo che ho fatto la mia strada, col mio metodo. Un momento molto chiaro di questo percorso d’attore è la scena della bottiglia di birra nel Tempo degli assassini, lì faccio vedere tecnicamente tutti i principi dell’oriente, gli stop, i controimpulsi, la forza, il lento, il veloce, la direzione degli occhi, sembra una partitura veramente da attore del kabuki. E poi però quando passa nello spettacolo quella cosa lì non la riconosci più. Vedi un uomo con una bottiglia di birra che racconta di un amore e basta. Però se non avessi quella partitura diabolicamente precisa non sarebbe così. Come chi a quel punto conosce talmente bene il gesto che non lo pensa più, è suo, la verità ti esce fuori da dentro. E io ogni volta, anche se l’ho fatta duemila volte, vivo l’esperienza come se fosse la prima volta che la faccio, grazie a quello. Quindi ho fatto della tecnica una strada per poi in effetti ritrovare comunque una ricerca del teatro come verità, come fragilità, come instabilità, come disequilibrio, come lasciarsi guardare dentro, come costrizione e libertà interiore. Non sono io attore che ti impongo il messaggio, sei tu che mi vedi, mi lascio guardare. È molto chiara l’immagine nella musica: io Per Elisa la conosco così bene che nel saperla suonare lascio che l’anima venga fuori. E viene fuori un’anima anche sporca, imprecisa. Quella è stata la strada che ho fatto mia, di quelle esperienze. La danza è diventata qualcosa che non riconosco più.

    Spesso fai riferimento alle tecniche del teatro orientale. So che non cerchi l’esperienza antropologica alla Eugenio Barba, ma non senti il rischio del fraintendimento in questa dislocazione? Non hai mai avuto paura di fraintendere l’oriente? Voglio dire come Artaud ha frainteso il teatro balinese (e non è forse l’Artaud più interessante).

    Bisogna anche fraintenderlo. C’è un momento in cui devi fraintendere. Come Charlie Chaplin ha frainteso Mei Lang Fan, dice che l’attore cinese è stato il suo grande maestro. Io lo capisco perfettamente. In qualche modo, io l’ho studiato il samurai, l’ho fatto per tanti anni, poi è diventato un segno del mio corpo. Ma poi ho ritrovato tutta la necessità di dire, non mi importa di fare il teatro orientale, lo fanno talmente bene loro. Io poi ho lavorato con Iben, non con l’Odin, c’è un po’ un altro passo dato da lei.

    Anche perché appunto al di là di quello, Odin o no, non è l’esperienza antropologica che ti interessa.

    Non è l’esperienza antropologica anche perché io sono un traditore, sono sempre stato uno negli armadi. Anche da Pina Bausch avevo un contratto da attore ospite, non sono mai stato pagato io. Quando finalmente fui accettato nel gruppo Farfa di Iben, dopo un mese il gruppo si sciolse. Con Barba avrò parlato una volta. I maestri sono quelli che ti mostrano una storia, ti danno un mezzo per ritrovare la tua storia. Io non potrei mai fare il teatro balinese, figurati, farebbe ridere.

    Come fare perché la tecnica non scada nel virtuosismo?

    Non lo so, dopo vent’anni in cui ho detto non canterò più una canzone nemmeno se mi pagassero, in Questo buio feroce sto riprovando a cantare. Con gli attori della compagnia stiamo facendo un lavoro parallelo, ho ripreso il mio ruolo di maestro, me l’hanno chiesto loro. Però questo lavoro porterà delle cose più avanti nel tempo, non subito. È strano da dire, è anche un po’ responsabilità mia, ho fatto un po’ il regista, e dimenticato di fare un po’ il maestro.

    Come si formula per te la parola attore? Cioè che cosa agisce l’attore, se il suo agire non ha per scopo la rappresentazione?

    L’attore per me è la coscienza totale del tuo corpo dei tuoi suoni del tuo respiro della tua voce dello spazio che occupi. È entrare in uno stato in cui sai, anche se sei di spalle, come ti stanno percependo. Ho preso coscienza che io ce l’ho, come attore, posso sentire se uno in fondo alla sala alza un dito. Anche Bobò ha questa cosa strana, però io ci sono arrivato attraverso un grande lavoro fisico e vocale. Invece questa compagnia ha avuto anche molti successi, e quello ti può perdere. Io e Pepe abbiamo avuto la fortuna di non avere per molti anni nulla, poi ci siamo recuperati, però quella cosa ti faceva comunque stare ore e ore a lavorare, Questo a un certo punto è mancato, la dimensione della formazione, prenderti anche la responsabilità di passare una storia. Siamo una generazione che non ha più passato niente agli altri. Ci sono registi che non hanno una storia come la mia sul lavoro d’attore, poi magari fanno spettacoli belli, però siamo lontani. Solo per fare la discesa dal palco alla platea con i ragazzi dell’Ecole des maitres abbiamo provato ore, attraverso il training, semplicemente per dare attraverso quella discesa la stessa drammaticità che hanno gli attori di Pina Bausch. Perché Dominique Mercy, il grande attore di Pina Bausch, quando si siede su una sedia si siede su una nuvola, può fare cose che un attore della tradizione non ce la fa. Io a quella cosa lì ci sono arrivato in un altro modo, che è l’oriente. Ora sono in una fase in cui mi interessa trasmettere una tecnica per arrivare a quello stare lì su una seggiola. È lungo però è bello, siamo in un momento vitale. Io ho rifiutato tante zone anche di virtuosismo, perché ho rifiutato uno stile, ho rifiutato il terzo teatro, un club, un modo, una ideologia. Come quello che ha studiato danza classica e a un certo punto non ne vuole più sapere della classica.

    Ma è un rifiuto dello stile in quanto tale o è per un desiderio di costruire un tuo stile?

    Non un mio stile ma un desiderio di fare, come poi è successo, degli spettacoli che parlano alla vita di tanta gente. In questo senso c’è anche Julian Beck, anche se io non ho mai visto uno spettacolo del Living dal vivo. Alcune frasi che scrive Julian Beck sulla tecnica le ho trovate molto vicine. Il non virtuosismo, l’attore che comunque si confronta con la morte. A quel punto devi toglierti la maschera che comunque c’è, la tradizione ormai è una maschera, poi di maschere ce ne sono tante anche nei miei spettacoli, ma importa aver coscienza della maschera, non è che la maschera è la norma. Nella danza si è formalizzata un’estetica, nel terzo teatro. La formalizzazione ti allontana dalla gente. Devi distruggerla, come squarciare una tela, perché altrimenti ti metti in una gabbia e non parli più. Io ho raccolto in questi anni testimonianze bellissime di persone cui il mio teatro ha cambiato la vita, io lo capisco, quando ho visto uno spettacolo importante mi cambiò la vita, o di persone che hanno deciso in prendere una strada artistica. Un amico che avevo conosciuto in Marocco e poi non avevo più rivisto per 25 anni è venuto a salutarmi ad Avignone, poi ha cominciato a venire a tutti gli spettacoli, e si è messo a fare delle sculture, ora espone a New York. Mi ha detto che quando ha visto Bobò con quei fiori in mano, gli è scattato qualcosa.

    Bobò è davvero il paradigma dell’attore nel tuo teatro. Bobò rovescia il percorso dall’attore al personaggio, cioè il percorso di costruzione del personaggio, che sta a cardine della tradizione novecentesca. La tradizione del Novecento è l’attore che va verso il personaggio. Psicologico o non psicologico, realistico o non realistico che sia, ma in fondo il “ti credo” di Stanislavskji è questo. Mentre Bobò indossa dei personaggi differenti, tanti, che intanto non sono proprio dei personaggi in quanto non hanno una psicologia, appunto, non hanno una storia. E li porta in scena come una maschera. Ma li porta in scena per spogliarsene. Dopo un po’ non vedi più i personaggi che indossa, e tra l’altro li indossa sempre con una sorta di sprezzatura (quel suo gesto della mano, come per buttare via). Non vedi più il personaggio ma vedi l’attore. Il suo percorso è al contrario, va dal personaggio all’attore.

    Questo buio 2È molto centrato quello che hai detto. Io dico spesso che Bobò qualunque cosa fa, è: lo vesti da Arlecchino ed è un altro Arlecchino. Succede così tanto con quel piccolo uomo che spesso, nonostante siano passati dieci anni, non sono in grado di far emergere quello che possiede dentro. Poi ha avuto una grande fortuna di incontrare me, eravamo nello stesso viaggio, se fosse finito con un altro regista… Una mia amica mi diceva che agli attori propongo il mio modo di essere attore, la grande coscienza di diventare guida di te stesso, in Bobò ha visto la coscienza che io sono la sua guida. Lui sa che se non ci sono io non può fare niente, però con me la sua luce è esplosa.

    L’esempio di Arlecchino che fai è chiarissimo. Di Marcello Moretti ricordi l’Arlecchino, perché tutto lo sforzo dell’attore è di diventare credibilmente Arlecchino: di Bobò non ricordi l’Arlecchino, ricordi Bobò, quello che vedi è Bobò che veste quel personaggio.

    Alla fine il personaggio si svuota e rivedi lui. È come se sotto c’è sempre lui e allo stesso tempo c’è il personaggio, perché lo indossa molto bene. Brecht sarebbe stato entusiasta. La distanza di Bobò (ridendo) si capirà più avanti, quando noi non ci saremo più, se avremo dei buoni video. Si capisce dall’esperienza molto bella che hanno fatto Bobò e Orsini. Alla fine lui porta dentro un segreto.

    Ci sono dei corpi che hanno la capacità di mostrare l’osceno del teatro, nel senso proprio di ciò che sta fuori dalla scena. Ti fanno vedere quel che avviene lì sopra quel palcoscenico in quel momento, ma anche delle altre cose che stanno oltre . Forse perché abitano la scena da stranieri, come Bobò che è straniero nell’evento scenico.

    Mi ricordo spesso quelle figure che vedevo per la recita di Santa Caterina, anche nel teatro amatoriale c’è qualcosa che mi ha sempre colpito. Un po’ ho preso anche da lì. La lunga parata in cui vedi il fornaio il sindaco la parrucchiera che si sono messi addosso un vestito, però tu riconosci il fornaio ma nello stesso tempo, Caravaggio è stato un grande maestro, riconosci il senso del personaggio. La parata in cui la parrucchiera faceva Santa Caterina mi ha sempre commosso. Era la parrucchiera ma allo stesso tempo si era messa addosso il vestito della santa. Bobò mi riporta un po’ anche a quello, l’attore che mi tocca perché non perde se stesso ma allo steso tempo è al 100% dentro a quel vestito. E questo è proprio il senso del teatro, un po’ l’opposto dell’identificazione strasberghiana del personaggio, da cui mi sono oggettivamente allontanato anche se alcuni riescono ad arrivare a una credibilità totale. Qui entra anche il tema cinema. Se nel teatro ho trovato un mio percorso, so ormai quello che mi piace e quello che non voglio, questa zona nuova del cinema è una grande apertura, perché da un lato non mi interessa la fiction, abbiamo bisogno di un nuovo neorealismo. E non mi interessa nemmeno il documentario.

    Cosa intendi per nuovo neorealismo?

    Quando vedo i film di De Sica del dopoguerra, c’è un filo che corre tra una necessità e qualcosa che nasce da una terra, che si porta dietro una matrice popolare forte, che mi racconta di una guerra, mi porta le ceneri di quel dolore, ma nello stesso tempo diventa poesia.

    Hai usato una parola, popolare, che è difficile da maneggiare.

    Sì, difficile perché popolare può essere sempre scambiato con populistico. Io stesso mi dico che forse non è la parola giusta, anche Il grande fratello è popolare. Bisognerebbe coniare una parola.

    Ma non ti sto dicendo che la parola è giusta o non giusta, ti dico difficile da maneggiare. Intanto va in direzione contraria a gran parte delle esperienze artistiche nuove del Novecento, che sono tutt’altro che popolari, sono piuttosto elitarie.

    Bobò è popolare, la commedia dell’arte, il teatro di Shakespeare, la tragedia greca, il cinema del neorealismo, Pasolini, Caravaggio, tanta pittura, tanti musica, di tante cose potrei dire popolare. C’è un’arte moderna che non trovo popolare, ce n’è un’altra che trovo popolare. Durante un viaggio in Venezuela, mi sono trovato in un labirinto bianco, a un certo punto ho vissuto come un’esperienza primaria, una specie di perdita, ho trovato un’uscita simile al famoso taglio di Fontana, e da quel momento questo taglio è diventato per me popolare. Ma è un po’ duro dire che Fontana è popolare!

    È duro quel percorso che ti porta a vivere la tua esperienza.

    Io parlo di questo, di un percorso che non è rimasto fermo a una visione analitica di un’opera d’arte, intellettuale, ma l’ha vissuta in prima persona. C’è una zona di popolaretto che è la maglietta sopra l’ombelico, è la moda, è la televisione. Invece popolare è per me qualcosa che c’entra più con l’arcaico, le zone che appartengono all’essere umano nella sua profondità più antica, a quel punto un teatro che parla all’essere umano nella sua radice più profonda. Zone che quindi non hanno più a che fare col livello culturale o intellettivo.

    Ma che hanno anche bisogno di essere ri-conosciute, al di là del riconoscimento immediato che è quello appunto del popolare. Cioè il popolare è la fiction, ma perché la fiction o Il grande fratello? Perché lo spettatore si proietta immediatamente in quello che vede, si riconosce. Riconosce una realtà che gli è propria per cui non ha bisogno di un filtro estetico, artistico.

    Però oltre a riconoscersi, c’è una zona più profonda che non è identificarsi. Nel Grande fratello lo spettatore si gratifica. Io posso anche piangere nel vedere una storia televisiva molto stupida, potrei anche cadere in quel popolare lì. Però la commozione è qualcosa che va anche nel profondo, c’è un contrasto fra il riso e il pianto che poi si confronta con la morte, ritorniamo un po’ lì. Popolare è qualcosa che si confronta con la morte. Che si confronta con l’essenza profonda della vita, in cui tutti abbiamo delle zone comuni. Mi viene in mente sempre questa immagine: se ci ritroviamo in mezzo all’oceano io e la ragazzina del Grande fratello e la presentatrice che non sopporto e l’intellettuale che detesto, in quella nave succede un’esperienza che ci accomuna, la paura, il mare grosso. Ecco il teatro che va in quelle zone mi interessa, che poi è il rito, lì è popolare, non io che me ne sto con le mie certezze. Forse ha più senso dire arcaico, però la parola non ce l’ho. La condivisione a livello più profondo della nostra condizione culturale economica politica sociale ideologica.

    Una delle ultime formulazioni cui era arrivato Leo de Berardinis è quella di “teatro popolare di ricerca” . Voglio dire che è una parola che si può usare lecitamente, dipende da come la usi, da come la metti in campo.

    Però la zona è quella, se uno spettacolo come Guerra ti trovi d’improvviso a farlo in una zona di guerra, come quando siamo andati insieme in Palestina, lì sì era popolare. Però è difficile dire che Guerra è popolare come Il grande fratello. Lì succedeva qualcosa che andava oltre la nostra storia individuale, per importante che sia. Lì erano in uno stato di disequilibrio che li aiutava a vivere questa esperienza. Perché spesso il teatro ti fa essere anche molto pigro, il teatro impigrisce il pubblico.

    Perché, immagino io, la forza del teatro, del tuo lavoro, di quegli attori era tale da provocare questo ritorno da parte dei tanti spettatori ma non per una facilità o per una natura popolare in sé del lavoro. Pensi che anche un film come Grido possa andare in questa direzione?

    Il cinema è un’altra storia, è individualistico come percorso. Nella sala teatrale ci troviamo a condividere un evento, al cinema c’è solitudine, io solo con lo schermo, un film te lo puoi vedere anche da solo. Il teatro è anche quel rito collettivo che al cinema abbandoni. In quell’abbandonare c’è già una piccola rinuncia. Quello che sto cercando di fare è ciò che dicevo prima, non mi interessa la fiction né il documentario che non mi mostra una bellezza. Allora sto cercando di danzare, è la parola giusta, il corpo nel cinema mi interessa, il corpo racconta molto. Ho scoperto di poter raccontare una storia personale però non volendo fare il documentario, paradossalmente attraverso Shakespeare. Il teatro nel cinema mi sta interessando, potrei fare al cinema una pièce teatrale che invece non farei a teatro, in questo cinema che ho fatto c’è del teatro che mi racconta qualcosa di più forte del naturalismo cinematografico. Paradossalmente nell’estrema finzione c’è qualcosa di più vero, mi viene da dire un nuovo neorealismo, un gioco di realtà. Anche nel film Grido ho cercato quella zona fra il gioco esasperato cinematografico quasi da videoclip e poi però il bisogno di parlare di una storia che ha una sua verità, comunque totalmente contaminata. In fondo mi viene da pensare che Kazuo Ohno aveva visto una volta danzare la ballerina Argentina e tutta la vita ha fatto lei, e forse io parlo sempre della stessa cosa. Della morte e della vita.

    (Pubblicato in “art’o” n. 21, autunno 2006)

     

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