• La conoscenza del fare. Il teatro secondo Luca Ronconi

    Sul finire degli anni sessanta del secolo scorso uno strano spettacolo deflagra nelle piazze e in altri spazi poco abituali al teatro. L’Orlando furioso che Luca Ronconi mette in scena dal poema dell’Ariosto, con il contributo drammaturgico non secondario del poeta Edoardo Sanguineti, rappresenta una vera e propria rivoluzione teatrale, pur sullo scorcio di un decennio non avaro di momenti di rottura sulla scena nazionale, testimoniati dal convegno che una paio d’anni prima, a Ivrea, aveva dato voce al “nuovo teatro”. L’uso di un testo non tratto dalla letteratura drammatica. Il montaggio delle scene operato dal regista, che avvicina lo spettacolo al concetto di “opera aperta” teorizzato in quegli anni in campo letterario, laddove cade ogni possibilità di interpretazione autoritaria. La simultaneità delle azioni che si sviluppano su carrelli mobili in mezzo al pubblico. La dialettica di straniante epicità del testo e di fascinazione emozionale della rappresentazione. Il risveglio dell’attenzione dello spettatore, sottratto alla passività della poltrona di platea e immesso in una situazione di pericolo che lo costringe letteralmente a prendere posizione. Ce n’è abbastanza per sorprendere anche i più smaliziati.

    L’Orlando furioso può essere considerato a buon diritto uno spettacolo manifesto che enuncia e mette alla prova, tutti insieme, temi e caratteri ripresi e variati in più modi nella successiva attività del regista. È soprattutto il decennio successivo, fino al 1978 del laboratorio di Prato, quello in cui il provarsi di Ronconi tocca i punti di più radicale innovazione. Sintomatico è, non a caso, il termine di laboratorio preso in prestito dal linguaggio scientifico come sinonimo di luogo di sperimentazione. Laboratorio è il grande spettacolo della Biennale che convoca a Venezia i maestri della scena internazionale, al culmine della parabola artistica della neo-avanguardia della seconda metà del 900 – e sarà significativamente Utopia il titolo scelto dall’artefice per lo spettacolo con cui invade una strada nei cantieri navali della Giudecca, nel segno della commedia attica.

    Laboratorio è appunto quello che a Prato verifica le rifrazioni nella modernità del capolavoro di Calderon, La vita è sogno ripensata da Hofmannsthal e Pasolini, sperimentando l’uso di spazi diversi dalla tradizione e l’uso diverso di uno spazio tradizionale. Come dimenticare, per chiunque vi abbia assistito, le Baccanti in cui Marisa Fabbri conduceva pochi spettatori attraverso le stanze immerse nell’oscurità del dismesso istituto Magnolfi, un ex orfanotrofio, riassumendo in sé l’intera struttura drammaturgica della tragedia – quasi a offrire, con questa sciamanica cerimonia, una possibile risposta al tentativo di raggiungere l’irraggiungibile origine della tragedia con cui si era misurata un’altrettanto memorabile Orestea, che imprigionava attori e pubblico dentro un’enorme costruzione lignea, scontando qualche problema di agibilità.

    La carriera registica di Luca Ronconi si avvicina al mezzo secolo, sono più di un centinaio gli spettacoli realizzati (senza contare un ugual numero di messinscene operistiche). Un corpus enorme e inevitabilmente sfrangiato. L’ingresso del regista nel teatro istituzionale (direttore artistico a Roma, Torino, Milano…), e l’obbligo di confrontarsi anche con il pubblico che più tradizionalmente frequenta le sale teatrali, si risentono inevitabilmente nei lavori dei decenni più recenti. Ma in un catalogo di spettacoli tutti comunque di grandissima qualità, e altrettanto grande godibilità, si staccano alcuni momenti altrimenti memorabili, oltre che fuori formato per così dire, dagli esorbitanti Ultimi giorni dell’umanità che Karl Kraus, l’autore, diceva concepiti “per un teatro di marte” al labirinto scientifico di Infinities. Giacché il regista non rinuncia a tornare ai caratteri originali del suo lavoro, a ricominciare dall’uso di spazi e testi non canonici. Da un lato, il vecchio deposito di scene e costumi della Scala, alla Bovisa di Milano, o un tratto del rinascimentale corso Ercole d’Este, a Ferrara, lastricato di specchi; dall’altro, romanzi come I fratelli Karamazov o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, racconti e libri di memorie, saggi sull’economia e la finanza o la bioetica, la sceneggiatura cinematografica di Lolita scritta da Nabokov ma non utilizzata da Kubrick…

    Ronconi è un artista del fare, sornionamente refrattario a metodi e teorie. Uno che “ne ha fatte di tutti i colori, consapevolmente e con determinazione”. Non rivendica un metodo, anzi afferma di non averne. È l’utopia realizzata nella concretezza. Un ordinatore di materiali, uno che si è trovato a fare il regista, e ci si è trovato bene. Così ci si mostra nelle pagine di Teatro della conoscenza, scritto nella forma di una lunga conversazione con Gianfranco Capitta e arricchito da una preziosa sinossi di tutti gli spettacoli realizzati (lo pubblica Laterza). Dove il titolo, che Leo de Berardinis avrebbe sottoscritto, sta a dire la scelta in favore di un processo di conoscenza sviluppato attraverso l’esperienza, ovvero cosa fa conoscere il fatto di fare le cose.

    Regista di testi, e ad essi rigorosamente fedele, in un teatro però dove il dialogo e i personaggi non sono più i soli cardini della drammaturgia e dunque sbiadisce anche la fabula, l’azione intesa in senso drammatico che il teatro può al massimo rivivere, è sull’invenzione teatrale che si fonda e cresce la sua personalità. Sulla teatralità, se si assume la celebre formula di Roland Barthes per cui la teatralità è il teatro meno il testo. Paradossalmente (ma non tanto) Ronconi mette in opera una strategia di minorazione del testo, leggibile già nella scelta di preferire, anche quando si rivolge alla letteratura drammatica, autori minori o del tutto sconosciuti. Shakespeare, certo, ma ancor più gli altri assai meno frequentati elisabettiani; non Molière ma i comici dell’arte come Giovan Battista Andreini, figlio della celebre Isabella, la prima diva della scena italiana, tratto fuori dalla ristretta cerchia degli specialisti del teatro barocco; semisconosciuti autori del settecento o del primo novecento tedesco… (ma stanno tutti nelle biblioteche, postilla il regista). Da lì parte poi la ricerca dello spazio in cui il testo chiede di essere messo in scena, dei gesti e dei suoni che se ne impossessano passando per i corpi e le voci degli attori usciti dalla sua scuola – giacché Ronconi è stato in tutti questi anni anche uno straordinario pedagogo. E che il setaccio della teatralità faccia il resto. Alla fine di questo processo di appropriazione da parte del teatro, il testo tende a ritrarsi sullo sfondo dello spettacolo, a perdere il proprio valore prescrittivo così come l’autore ha visto disconosciuta (da tempo) la propria autorità scenica; sbiadisce, il testo, fino a farsi come uno spettro che aleggia sui bastioni dello spettacolo. Chi è là?, chiede lo spettatore, ma già è spinto via verso altre avventure della mente.

    Non ricorderemo Ignorabimus per le parole del dimenticato Arno Holz (di cosa parlava, già?) ma per le nove ore trascorse insieme alle cinque grandissime attrici che le hanno incarnate, con maschere e abiti maschili, chiusi noi e loro nel bunker di cemento cresciuto all’interno della struttura teatrale… Così come il ponderoso Kraus che pure si era letto voracemente prima di mettersi in viaggio per Torino, si frantuma all’interno delle officine del Lingotto nella miriade di percorsi che lo spettatore è libero di intraprendere, costruendo da sé il proprio montaggio dello spettacolo (con un salto anche rispetto al “montaggio delle attrazioni” teorizzato da Ejzenstejn), sicché si comprende quanto affermava Walter Benjamin in un bellissimo saggio su Kraus (lo si legge in Avanguardia e rivoluzione), che quel che egli scrisse è un “silenzio rovesciato”.

    Al centro del teatro, al posto del testo spodestato, si insedia lo spettatore. Anche la drammaturgia dello spazio, che della scrittura scenica costituisce un elemento portante, viene infatti costruita pensando allo spettatore, o meglio ai singoli spettatori che non costituiscono più una massa omogenea ma possono essere pensati idealmente come tanti pubblici diversi. In effetti è cruciale nel teatro di Ronconi la capacità di pensare uno spettatore, capacità che tanto teatro contemporaneo ha perso, o non ha mai avuto. Uno spettatore costretto appunto a prendere posizione dalla libertà di orientamento offerta dallo spettacolo: non solo fra i tanti spettacoli possibili ma a come connettere la materia fornita dallo spettacolo, cioè a pensare politicamente.

    Ronconi persegue l’utopia di un teatro infinito, che consenta una totale libertà di scelta da parte dello spettatore. Nella consapevolezza che lo spettacolo vero non è quello che si consuma nella sala teatrale, lo spettacolo vero si fa nella memoria dello spettatore. Dove azioni, parole, corpi diventano emozione, l’altra faccia della conoscenza. Utopia forse, ma di cui lo spettatore non può che essergli grato.

     

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