• La Germania divisa di She She Pop

    Schubladen, dice il titolo. Cassetti. Come i contenitori che stanno allineati in primo piano, pieni di volumi, schedari, album di fotografie, dischi musicali. Più che una barriera o una linea di separazione della scena, sembrano creare un fuoco all’interno dello spazio, un geometrico luogo di convergenza degli sguardi e delle azioni. Più dietro ci stanno invece tre tavoli da ufficio, alle cui estremità siedono sei donne. A coppie. Tutte più o meno della stessa età, quarantenni o poco meno, la generazione che ha vissuto da adolescente gli anni Ottanta e quel passaggio cruciale, non solo per la Germania di She She Pop, che fu la caduta del muro di Berlino, l’improvviso sollevarsi del sipario di ferro che imprigionava un tempo i paesi dell’est.

    • Foto: Britta Pedersen Foto: Britta Pedersen
    • Foto: Benjamin Krieg Foto: Benjamin Krieg
    • Foto: Benjamin Krieg Foto: Benjamin Krieg
         

    Siedono su poltroncine montate su ruote, che utilizzano anche per compiere evoluzioni attraverso lo spazio scenico, vere e proprie coreografie. Ecco infatti che a un cambio di luce si precipitano a quei cassetti, con le loro poltroncine, e ne tirano una pila di carte che sparpagliano sui tavoli. Da cui cominciano a mostrarsi l’un l’altra una fotografia, a sfogliare una manciata di libri, a mettere sul giradischi un vecchio 33 giri, a leggere un brano di diario, come fossero reperti archeologici buoni a ricostruire un’epoca lontana. Che parte infatti dalle loro infanzie, dalle storie familiari. Il gioco delle luci sposta l’attenzione dall’una all’altra di quelle postazioni di lavoro, innescando il dialogo. Ben presto comprendiamo che si fronteggiano tre donne dell’est e tre dell’ovest, cresciute in un paese diviso, o meglio in due paesi divenuti diversi, per sistemi economici e politici, ma uniti, oltre che da una storia più antica, dalla linea di sutura dei vincoli familiari che una generazione non è in grado di spezzare.

    Saranno dunque diverse le memorie che mettono in campo, anche quando sono legate da un filo comune, come i pacchi dono confezionati di qua e aperti di là in maniera che nulla andasse sprecato, nemmeno lo spago. O l’arrampicarsi sul punto più alto per guardare dall’altra parte. E diverse restano, o vogliono credersi, mentre si riuniscono fra loro, le une a bersi una vodka, le altre con uno spumantino. Tutte, inutile dirlo, con le proprie contraddizioni. Fra nostalgia e senso di appartenenza. La Stasi e una patria che adesso non c’è più, lo shopping e il pacifismo militante…

    She She Pop è un collettivo di performer formatosi a Giessen, nell’Assia, e ora insediato a Berlino – e il termine non è casuale perché collettivamente firmano l’ideazione dei loro lavori, tralasciando l’indicazione di una regia che infatti è visibilmente assente, se intesa nel senso forte di una figura creatrice. Conta sette membri effettivi, con una larga predominanza femminile, a cui si aggiungono di volta in volta una serie di ospiti. Il ricorso a contributi esterni è anche funzionale a una costruzione drammaturgica che vogliono “aperta all’inatteso” – e tanto più importante in una creazione che, muovendo dalla decostruzione della memoria personale, si propone come una narrazione collettiva.

    Schubladen è una seduta di autocoscienza generazionale, oltre che di genere. Attraversa quasi mezzo secolo di storia tedesca, la sua faticosa riunificazione, la difficoltà di imparare a conoscersi laddove nemmeno l’Imagine di John Lennon suona uguale a est e ovest – e in quanto tale molto nazionale (significativamente She She Pop hanno voluto che al pubblico di Santarcangelo fosse consegnato un glossario dello spettacolo, che però non può comunicare le emozioni evocate da quelle canzoni, quelle serie televisive, quelle eroine dello sport a noi sconosciute). Con il dubbio che il tempo sia scaduto, come dice una canzone. Ogni tanto quella che siede di fronte a chi parla dice: stop. E chiede all’altra di definire un termine che ha usato. Emancipazione. Comunismo.

    Non un processo di archiviazione comunque ma esattamente il suo contrario. Si tratta appunto di aprirli quei cassetti, di buttare all’aria quello che contengono senza paura della confusione. Dare aria alla memoria. È proprio questa confusione che solleva Schubladen al di sopra dello stagno della correttezza politica in cui rischia a ogni momento affogare e che solo il bilancio finale che si impongono mette radicalmente in discussione. Non senza aver dato vita da ultimo, con le loro poltroncine, a una sorta di autoscontro. Con una carica di vitale teatralità che riscatta la tentazione dell’illusoria realtà cercata in un quotidianità ricostruita. Di reality ce n’è già abbastanza in giro.

     

    Post Tagged with