• Kafka nel cesso. Giù con Scimone e Sframeli

    È quasi impossibile non pensare a Gregor Samsa che una mattina, destandosi da sogni inquieti, si trova mutato in un insetto mostruoso. Stamattina mi sono ritrovato così –, dice il figlio, all’inizio di Giù. Dentro un cesso. E adesso non può più tornare fuori. Senza preavviso, senza un causa apparente è avvenuta una mutazione. I protagonisti si ritrovano altri da sé, in una condizione diversa da quella in cui si erano addormentati la sera prima senza che nulla lo facesse presagire. Una condizione che ha a che fare con la vergogna. In entrambi i casi, nel racconto di Kafka come nel nuovo lavoro scritto da Spiro Scimone, c’è di mezzo proprio questo: la vergogna.

    Foto: Andrea Macchia

    Tutto attorno è rimasto uguale, il solito microcosmo familiare (in tutti i sensi che può assumere l’aggettivo). Come ogni mattina il padre si lava davanti al lavandino così come la famiglia di Gregor Samsa continua a fare colazione secondo gli usuali codici familiari. Non ci sono due lune in cielo. Ché non ci sarebbe niente di straordinario nella nuova esperienza, per loro, per i due figli – se non che la vergogna (che letteralmente è un sentimento di rispetto) non è di sé ma per l’altro, per il padre. E tuttavia questa trasposizione del nostro universo in un altro ci appare subito come un atto irreversibile, come l’attraversamento di uno specchio. O sarebbe più appropriato dire uno sprofondamento.

    Giù. Non più al di là. Fin dagli esordi il teatro scritto da Spiro Scimone (e realizzato sulla scena insieme a Francesco Sframeli) parla di un oltre, di una realtà posta al di là dei confini visibili della scena. Separata da questa da una barriera fisica e tuttavia percepibile, nella sua ambiguità se non nel vero e proprio mistero, ai suoi abitanti. Il mondo fuori dalle pareti domestiche di Nunzio, da cui arrivano allarmanti messaggi lasciati sotto la porta. Il Bar invisibile oltre il muro che separa i due protagonisti dai suoi frequentatori. Il misterioso spazio del Cortile, nascosto dietro la barricata di cose buttate vie eretta quasi a difesa di quello spazio, il misterioso cortile abitato da personaggi rampanti, forse lo stesso che si renderà visibile in Pali.

    Come se la quarta parete, ormai sparita dal proscenio di un teatro che non ha più separazione fra scena e platea, si fosse spostata sul fondo, a delimitare lo spazio del teatro da ciò che sta fuori. Un fuori che tuttavia non può essere rimosso dalla coscienza, anzi è costantemente presente nel pensiero del teatro. Di più, si misura nel teatro di Spiro Scimone una vera e propria emergenza di questo oltre, una necessità di venire alla luce (della scena). Fino a richiamare a sé quelli che stanno “di qua”, personaggi in cerca non di un autore ma di un luogo, la scena come ultimo rifugio.

    Ora questo oltre sta Giù, come appare dal titolo. E lo spostamento non è privo di conseguenze. Il movimento verticale impone una gerarchia, fra chi sta in alto e chi sta in basso, non soltanto una diversità. Se poi questa verticalità corrisponde allo scarico di un apparecchio sanitario, se insomma la scena è occupata dalla grande tazza di un cesso, quel mondo infero assume una chiara connotazione. Facile tradurre: stiamo nella merda. O per lo meno ci stanno quelli di giù. Ma la metafora scatologica rischia di confondere, di semplificare la complessità del reale, la scrittura di Scimone e la regia di Sframeli che ne consegue non si esauriscono mai in ciò che è suscettibile di una interpretazione immediata. La denuncia non assume mai toni semplificatori, l’indignazione non ha mai il sopravvento sull’intelligenza, cioè la voglia di capire, pur nella visibile avversione per gli “ignoranti ma furbi”.

    Foto: Andrea Coclite

    C’è in tutto il teatro di Scimone una tensione quasi majakovskiana a prefigurare mondi altri, universi futuri o paralleli che hanno la capacità di dirci del nostro universo. Come se la realtà potesse essere raccontabile solo allontanandosi dalla sua immediatezza. Ma, si sa, basta la sopravvivenza di una cimice che quella realtà ci salta addosso. Non è però un processo metaforico quello messo in atto da Scimone. Pali e cessi non alludono a qualcosa d’altro, non rimandano ad altro da quello che sono. Pali e cessi. Da qui nasce quell’effetto di straniamento per cui non possiamo più riconoscere ai personaggi il comodo rifugio della psicologia. Una sorta di trasparenza li accompagna, una purezza di sentimento.

    I personaggi di Scimone hanno sovente un che di clownerie, di buffoneria. Figure di un lunare, stralunato vaudeville che dialogano sul filo del nonsense. Dove la ripetizione che scandisce i dialoghi sembra confermare piuttosto che sciogliere l’assurdo che vi fa capolino. Ma Scimone è abile a capovolgere la buffoneria in una costante interrogazione. E sul fondo c’è sempre chi dice no. Chi non è disposto a “digerire tutto”, per dirla col protagonista del Cortile. Come il cantante (dunque un artista) che si è rifiutato di cantare doppiato con la voce di un altro, che vuol dire non essere se stesso, e ora è costretto a vivere sotto un ponte insieme ai figli, per i quali canta quando sente aprirsi una finestra.

    Ciò che allontana l’esperienza del personaggio di Scimone dal racconto di Kafka è piuttosto la dimensione collettiva di tale esperienza. Ed è questa dimensione collettiva che riscatta la vergogna, giacché essa diviene non più sentimento individuale ma condizione condivisa. L’atto di riprovazione sociale si ritrae di fronte a un contagio già avvenuto. Anzi, si assiste a una vera e propria irruzione dell’altro. Una alla volta da quel giù vengono fuori altre figure. Un prete scomodo che bisticcia col suo Signore quando non trova la carta igienica. Il sagrestano incapace di ribellarsi alla sua condizione di oppresso. E dietro a loro, sotto di loro si percepisce, o meglio: si annuncia la presenza di altri, dei tanti altri costretti in quel mondo infero e desiderosi di una boccata d’aria. Non è un caso se alla fine anche il padre tira lo scarico che lo riunisce al mondo di giù.

     

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