• Il sopravvissuto di Anagoor interroga Socrate

    Dopo Virgilio e i versi dell’Eneide, scelti per calarsi nel conflitto fra l’arte e il potere, ora è Socrate il tramite classico con cui Anagoor cerca lo sbocco nelle questioni aperte della contemporaneità. Il rapporto con la classicità è uno dei motivi costanti che attraversano dall’inizio il loro lavoro, lo si è osservato altre volte, ma col tempo si va chiarendo che ciò che interessa a Simone Derai e compagni non è un pur apprezzabile manierismo ma una pratica dell’anacronismo come mezzo per guardare alla contemporaneità senza aderirvi. Farsi un po’ da parte per vedere meglio. Va in questo senso lo spettacolo che ha debuttato al festival delle Colline torinesi ed è passato per la Centrale Fies di Dro, prima di approdare a Vicenza per il ciclo di spettacoli classici da quest’anno affidati alla direzione di Franco Laera.

    Socrate Il sopravvissuto intreccia, come dice il titolo doppio, due diversi momenti “pedagogici”. Gli ultimi momenti di vita di Socrate davanti ai suoi discepoli e la parabola del protagonista del romanzo di Antonio Scurati, dubbioso professore di storia e filosofia in un liceo (ma nella scrittura elaborata da Derai con Patrizia Vercesi si innestano anche passi de La storia seguente dell’olandese Cees Nooteboom, un’altra storia di spaesamenti). Sono infatti i suoi tormenti, la sua velata insoddisfazione, ciò che racconta quando sale “in cattedra”, cioè sul palcoscenico dove stanno disposti in ordine i banchi di un’aula scolastica, rivolti verso la platea. E non è particolare trascurabile, quest’ultimo, perché ci obbliga, noi e lui, ad assumere la stessa posizione di fronte a chi ha occupato quei banchi. Ma non è racconto, è confessione e ricordo, un guardare indietro per ritrovarne senso e ragioni.

    Maggio 2001, dice la didascalia apparsa sullo schermo che occupa per una grande parte la parete di fondo del teatro. Il più crudele dei mesi, dice lui. Quello in cui bisogna chiudere in fretta i programmi ministeriali, e chissà se resta tempo per dire agli studenti dell’ultimo anno le stragi e i genocidi che ci ha lasciato in eredità il Novecento. E il minuzioso elenco in cui si esercita più che storia è geografia, una geografia cosparsa di milioni di cadaveri. Intanto i ragazzi sono andati a sedersi sui loro banchi, uno però è rimasto vuoto. Lo ascoltano immobili, mentre dice più a se stesso che a loro che non si può lasciare l’ultima parola al massacro. Loro, i ragazzi, lentamente scivolano nel sonno, cioè dalle seggioline scivolano proprio a terra, mentre il musicale rumore di fondo creato da Mauro Martinuz si trasforma in sempre più fragorosi colpi ritmati.

    Ottobre 2000, l’inizio di quello stesso anno scolastico. Lui si interroga sul senso del soffermarsi sulla “questione del romanticismo”, vorrebbe piuttosto parlargli di Kleist e della sua amante Henriette Vogel suicidi sulle rive del Wannsee. La vicenda procede a ritroso, come nei Tradimenti di Harold Pinter. E un poco per volta trova la sua misura dentro lo stile del gruppo di Castelfranco Veneto, dove la dizione pacata e quotidiana del protagonista Marco Menegoni è messa in reazione con le immagini visionarie che traducono visivamente la confusione in cui si dibatte. La memoria scivola nel sogno. L’ordinata normalità dell’aula viene sconvolta dai suoi provvisori occupanti. Da un lato, si buttano a terra manciate di libri, a formare un tumulo sul corpo disteso di una ragazza; dall’altro, altri libri vengono strizzati per farne uscire le liquide parole che contengono.

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    Giugno 1999, l’ultima lezione del primo anno. L’argomento è la morte di Socrate, come la racconta Platone nel Fedone. E il dialogo socratico porta inevitabilmente al tema dell’immortalità dell’anima. Ma si può insegnare qualcosa in cui non si crede? Recitavo la parte di uno che ci credeva, prova a ricordare il protagonista. Mentitore a fin di bene. Qui però si apre uno squarcio temporale. Sullo schermo appaiono le immagini di un gruppo di uomini che vestono in tunica. Sul volto portano una maschera di cartapesta, simile un po’ a quelle degli attori della tragedia greca. Recitano infatti, in un luogo incerto. Alle loro spalle si intravede una lavagna scritta col gesso, ma poi anche questa appare inquadrata nell’arco scenico di un teatro di tradizione. Recitano la morte di Socrate, siamo sbalzati nel 499 a.C. In realtà a dar loro voce sono gli interpreti sul palco che fungono anche da rumoristi. Ma ormai i piani si sono mescolati, slittano dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. Nel dialogo del Fedone s’innesta quello con il giovane Alcibiade, la cui ingenua sicurezza è messa in crisi dalle domande incalzanti del maestro. Ma oggi chi è Socrate e chi Alcibiade? Il ricordo si posa sullo scambio di battute avuto con quel giovane aspro e indisciplinato, spesso assente o in ritardo.

    E siamo all’atto finale. Si torna al futuro prossimo, l’estate del 2001, all’evocazione meticolosa dei gesti della commissione dell’esame di stato schierata in attesa del ritardatario. Che comunque hanno già deciso di bocciare. Quei gesti che restano come congelati, resi per sempre definitivi, quando il giovane arriva e dal casco tira fuori la pistola con cui comincia a sparare. A tutti tranne che a lui, il professore di storia e filosofia. Il sopravvissuto. E il racconto del massacro, diventato corale e rivissuto in una sorta di epico slow-motion, assume un’eco elisabettiana, da tragedia del vendicatore.

    Qualcuno ha accostato il romanzo di Scurati alla strage di Columbine, in cui un paio di studenti uccisero un buon numero di compagni di studi e qualche insegnante. Ma qui non c’entra nulla così come c’entra assai poco la “questione educativa” nello spettacolo di Anagoor – si tratta semmai del mistero dell’educazione – meglio: dell’insondabile rapporto fra maestro e allievo. Come ha sperimentato chiunque vi sia passato in mezzo. Non c’è nulla di didascalico, nessuna pretesa didattica in Socrate Il sopravvissuto. C’è il sottile sgomento che lascia l’incapacità di penetrare nella mente umana.

    Settembre 2001, buio.

     

    © gianni manzella 2016

     

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