• Cronache della distruzione. Anagoor alla prova della musica di Rameau e della poesia di Zanzotto

    La poesia di Zanzotto e la musica di Jean Philippe Rameau, la distruzione delle civiltà precolombiane per opera dei conquistadores spagnoli e l’olocausto di Hiroshima, e a far da tratto di congiunzione il radicamento nella provincia veneta che connota fin dagli inizi il lavoro di Anagoor, l’ensemble guidato da Simone Derai. Sono mondi distanti tanto per il genere artistico quanto per la cronologia, quelli che si incontrano nei due lavori che propongono negli stessi giorni, su diversi palcoscenici, e forse proprio per questo attrattivi anche nelle connessioni che sollecitano.

    Non è senza significato che in questa Ecloga XI, presentata a Vignola per Vie festival, torni il richiamo figurativo alla Tempesta del loro conterraneo Giorgione da Castelfranco, già genius loci del raffinato debutto teatrale della compagine. Prima però di penetrare nell’oscurità della scena, a sipario ancora chiuso, c’era stato a mo’ d’introduzione il Recitativo veneziano scritto originariamente per il Casanova di Fellini e poi pubblicato da Zanzotto in Filò. Oci de bissa, de basilissa Testa de fogo ch ’l giasso inpissa… Come ad anticipare, con l’invettiva rivolta dal poeta alla potente città lagunare, il suo amore per la natura non turbata dalla presenza dell’uomo.

    Dell’enigmatico dipinto di Giorgione, che a vederlo alle Gallerie dell’Accademia, a Venezia, ha in realtà dimensioni piuttosto ridotte, è riprodotto un particolare molto ingrandito, il solo riquadro centrale. Il ponte che passa sopra al fiume che costeggia una città. Il cielo tempestoso solcato da un fulmine. Il paesaggio è privato delle figure umane di contorno, il giovane uomo appoggiato a un’asta, forse un soldato, la donna seminuda che allatta un bambino – tornerà viva nel finale dello spettacolo.

    I due interpreti, Leda Kreider e Marco Menegoni, ne esplorano meticolosamente la superficie illuminandola a brani con due neon. A un certo momento sembrano quasi volerla abbracciare. E intanto dialogano con le parole di Zanzotto che dicono il sonno sapiente della natura, non è vero che la poesia nasca dal dolore.

    Un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto, dice il sottotitolo di Ecloga XI, ed è un deflagrare di sottotesti. Giacché “omaggio presuntuoso” era quello rivolto dal poeta di Pieve di Soligo all’ombra luminosa di Virgilio, così definiva le sue IX Ecloghe, volutamente ferme all’unità che precede le dieci delle Bucoliche. Poi però i due, Eva e Adam potremmo chiamarli, cominciano a stendere sul dipinto strati di una vernice scura, fino ad annerirlo completamente. Uno sfregio ma forse anche un grido di ribellione all’impotenza dell’arte, della stessa poesia di fronte all’orrore della storia umana. Ci aspetta una discesa agli Inferi, come Virgilio appunto nel sesto libro dell’Eneide. I crimini contro l’umanità che segnano una linea di frattura nel mezzo del Novecento – ma forse già a definirli così non se ne coglie tutto l’orrore. 

    All’immagine impressa nella memoria del paese natale dato alle fiamme dalle SS, le donne spinte a calci fuori dalle case, i morti dissanguati contro i muri, risponde la lettera che Günther Anders, il filosofo tedesco che fu marito di Hannah Arendt e dovette cambiare il proprio nome ebraico, scrisse nel 1959 a Claude Eatherly, l’inconsapevole pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, segnato per sempre dal sentimento della colpa – non si può chiedere perdono per l’uccisione di 200 mila esseri umani, scrive Anders che mette anche lui nel numero delle vittime, lui che poi nel suo paese fu fatto passare per un povero matto.

    All’uscita non ci aspetta il riveder le stelle ma un’altra selva oscura, dove pendono come strani frutti dei fluorescenti neon violacei. E pure è lì che si ricompone la scena della maternità sottratta alla Tempesta. Come volontà di dar forma al futuro, seppure ormai nell’assenza degli dèi.

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    A Rimini invece, per la Sagra Malatestiana, va in scena al teatro Galli Les Incas du Pérou, secondo dei quattro tratti dell’opéra-ballet settecentesca Les Indes galantes di Jean Philippe Rameau, celebrazione dell’incontro dell’Europa con gli altri continenti. È l’opera più giusta e più sbagliata per questo nostro tempo, dice Derai. Vuol dire, se comprendo bene, che partecipa di una contraddizione che l’avvicina molto alla contemporaneità. Giacché incrocia inevitabilmente il problema dell’altro, stretto fra l’assimilazione come prezzo da pagare per l’accoglienza o il conservare la sua alterità. Nella vicenda della principessa inca Phani innamorata del conquistador spagnolo Carlos cui vorrebbe strapparla il deprecato sacerdote del culto del Sole Huascar, si proiettano inevitabilmente i pregiudizi della civiltà occidentale dell’epoca ma anche i bagliori dell’illuminismo che contrappongono ragione a superstizione.

    L’artefice di Anagoor questa contraddizione l’assume per intero, senza negarla ma scegliendo di mettere in crisi la rappresentazione, la possibilità stessa di rappresentare l’azione, per lasciare l’opera musicale nella sua nudità. I tre cantanti, Ekaterina Protsenko, Nicholas Scott e Renato Dolcini, privi di costumi di scena, stanno immobili dietro ai microfoni sulla striscia di proscenio che si allunga fra il grande schermo che chiude l’arco scenico e la buca dell’orchestra dove è disposta la Filarmonica Arturo Toscanini guidata da Giulio Prandi. Messo da parte il filtro dell’esotico, Derai trasporta di peso sullo schermo la storia d’amore che si svolge sullo sfondo della conquista del Peru, in un film che ha per protagonista la comunità peruviana stanziata nelle campagne del Veneto, fra campi di mais e allevamenti di lama e alpaca.

    La rappresentazione ritorna in tal modo nella forma di una sorta di collettivo rito campestre o di suo making of, dove si proiettano anche a mo’ di didascalie le tappe storiche della conquista e dello sterminio dei popoli nativi. Ecco una donna impegnata in una danza tradizionale, una ragazza discinta che corre ad abbracciare un uomo armato di elmo e spada, un giovane che esce nudo dal mare, e poi soldati che avanzano nel bosco insieme a cani minacciosi… Alla fine sarà un’eruzione vulcanica a mettere di nuovo in sincrono la musica di Rameau con l’immagine di una terra bruciata. E siamo di nuovo al presente.

     

    © Gianni Manzella

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