• La tragedia un po’ indecente di Affabulazione come un thriller nella lettura di Marco Lorenzi

    È un sogno allucinato l’Affabulazione pasoliniana che Marco Lorenzi ha messo in scena con la volontà dichiarata di farne un thriller crudele. Un sogno angoscioso che rovescia, come in uno specchio, quello in cui si rifugia la protagonista di Calderón – da lì era partito, con la bella regia di Fabio Condemi, il progetto di Ert di presentare nel corso della stagione tutti i testi teatrali dell’autore friulano. L’orizzonte è sempre quello della borghesia come realtà da cui è impossibile uscire, da qualunque lato la si voglia guardare. Là, in Calderón, sulla traccia de La vita è sogno, l’impossibilità per la giovane Rosaura di sottrarsi alla prigione familiare se non con la fuga nella malattia; qui invece con lo slittamento nel mito tragico di Edipo, anch’esso però rovesciato nello scontro generazionale di un futuro anteriore che arma la mano dei padri contro i figli. Ecco infatti farsi avanti l’ombra di Sofocle in cui si riflette quella dell’autore, celata nell’ambiguità del corpo femminile di Barbara Mazzi, occhiali scuri e soprabito stretto. A preannunciare “le vicende un po’ indecenti” di una tragedia che finisce ma non comincia.

    Foto di Giuseppe Distefano

    In effetti lo spettacolo di Lorenzi comincia dall’immagine finale, gli anfratti notturni di una stazione ferroviaria, dove nel buio si scorge un uomo sdraiato per terra, dietro compare uno forse più giovane con il cappuccio della felpa tirato sul capo. Da lì si slitta nel vuoto dello spazio stretto fra due velatini che chiudono la fuga prospettica verso il fondo creata dalle pareti laterali. Dove campeggiano solo un Revox e un vecchio apparecchio telefonico appoggiato per terra, oltre alla poltrona del protagonista. Il Padre. Borghesia imprenditoriale lombarda di stampo progressista, la villa sul lago ma anche l’asilo per i figli degli operai. Si presenta con un urlo (e molto urlerà ancora Danilo Nigrelli, accanto a Irene Ivaldi e i due giovani Roberta Lanave e Riccardo Niceforo). Cosa c’è da gridare? Lo dice anche la Madre, elegante e concreta nel suo abito chiaro. Non ti ho mai visto comportarti così… Ha fatto un sogno che non ricorda, c’era di mezzo il Figlio. E ora se lo ritrova davanti, con quella biondezza terribile che non riconosce come sua, mentre balla insieme alla Ragazza sul ritmo di Oye como va, gli anni erano quelli. Lei loliteggia un po’, gioca la carta della seduzione.

     

    Di Affabulazione, senza riandare a tempi più lontani, restano nella memoria le immagini luminose dello spettacolo realizzato da Luca Ronconi esattamente trent’anni fa a Torino, con Umberto Orsini, Paola Quattrini e Marisa Fabbri. Strepitosa quella iniziale del protagonista in poltrona da solo nel deserto di un prato erboso. Se là la scelta registica muoveva da quella apparente luminosità verso l’oscurità della tragedia, qui non sembra esserci spazio per una declinazione tragica se non in una coniugazione psicoanalitica del mito che non è forse ciò che più aveva in mente Pasolini – richiama semmai le atmosfere torbide del precedente Festen che il regista torinese ha tratto dal film di Thomas Vinterberg.

     

    La drammaturgia di Laura Olivi, qualcosa tagliando, ha suddiviso gli otto episodi del testo in una successione di brevi scene intervallate da un attimo di buio. Con un effetto di accelerazione della vicenda che forse è un falso movimento, un precipitare immobile lungo la china di un finale già scritto. Lo capisce anche lo spettatore che non ha letto Pasolini, davanti a quel coltello che passa di mano e dovrà infine trovare una giustificazione. È solo questione di tempo, o di tempi, sembra dire il grande orologio che sovrasta sul fondo la scena, replicato dalla più borghese pendola che compare su un lato. Disturbanti immagini oniriche si insinuano nei deliri religiosi dell’uomo, qualcosa in lui si è spezzato. Si materializzato nei corpi dalla testa di pecore che appaiono più volte nei panni dei protagonisti, a un certo punto li vedremo seduti alla tavola imbandita davanti a un agnello infilzato sullo spiedo. O il lettuccio dove tutto si consumerà, in maniera un po’ indecente appunto, senza chiarirsi. E siamo all’epilogo, si torna in quella stazione ferroviaria dove lui è pronto a ricominciare daccapo a raccontare la sua storia di dannazione ed espiazione. O forse no, perché un dubbio sulla natura di quel sogno Lorenzi ce lo vuole lasciare. Come Zhuang-zi che sognò di essere una farfalla o forse era la farfalla che sognava di essere Zhuang-zi.

     

     

    © Gianni Manzella

     

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