• I fili del tempo di un maestro. Addio a Peter Brook

    La fila alla porta del teatro iniziava un’ora prima dell’apertura, per conquistare quei pochi posti che venivano messi in vendita all’ultimo momento. Tutti gli altri esauriti da tempo. Ogni sera, senza eccezioni. E naturalmente si era contenti di sedere anche su un cuscino per terra, in quello spazio spoglio dove il pubblico si accalcava fino a toccare il perimetro dell’azione. Le Bouffes du nord sono state il capolavoro di Peter Brook, uno spazio teatrale che è anche l’espressione di un’idea di teatro. L’idea che l’ammirato maestro inglese ha distillato nel corso di una carriera lunghissima. Il teatro immediato di Peter Brook ha coltivato con rigoroso partito preso la capacità di fare a meno di tutto ciò che è superfluo. Nessun artificio. Grande semplicità di costumi e niente scenografia. Un largo tappeto rosso a trapunta poteva bastare a delimitare il luogo dell’azione scenica. Cosa poteva esserci di più scenografico, del resto, di quell’involucro cilindrico della periferia parigina, nei pressi della Gare du nord, sapientemente conservato con le tracce prodotte dal tempo.

    Quando Brook vi entrò la prima volta, infilandosi carponi sotto una schiera di cartelloni pubblicitari, l’edificio era abbandonato da più di vent’anni, serviva a volte da rifugio per i senzatetto. E il racconto di quella scoperta ricorda l’ingresso di Grassi e Strehler in quel che fu poi il Piccolo teatro, nel dopoguerra milanese. Un teatro dimenticato e in rovina. All’interno tutto era stato bruciato, il palcoscenico sprofondato.

    Era forse piaciuta la singolare somiglianza delle Bouffes con i teatri dell’epoca elisabettiana, al regista in cerca di un luogo dove stabilirsi con i suoi compagni, dopo anni di vagabondaggi, a metà degli anni settanta. Shakespeare sarebbe stato una bussola a cui tornare. Fra quelle pareti sbrecciate abbiamo visto un Prospero africano animare le magie della Tempesta e un sorprendente Amleto “rasta”, pelle scura e capelli a treccine. Ma allora l’ardua “conquista della semplicità” si alimentava soprattutto dei recenti viaggi in Africa e in Afghanistan, da cui prendevano spunto anche i fiabeschi apologhi di Les Iks o La conférence des oiseaux, viaggi mistici che ci mettevano in sospetto di un eccesso d’enfasi antropologica e di tecniche rubate al teatro orientale per attingere a una superficiale comunicativa (oggi saremmo più rispettosi).

    Brook ci sembrava già allora vecchissimo, molto più di quel che dicesse il suo viso segnato ancor giovane da larghi solchi ai lati della bocca. Dove colpivano gli occhi chiari, più lago che cielo, assai diversi dall’azzurro elettrico posticcio che donava un aspetto mefistofelico alla seriosa fotografia in copertina al suo libro di memorie, I fili del tempo. Effetto di una sorta di anacronismo, il prevalere della sua lunga e densa vita artistica nell’immagine che ne se aveva da spettatori. Una precocissima vocazione l’aveva portato al teatro giovanissimo, diciassettenne studente a Oxford, dopo aver sperimentato le difficoltà della strada cinematografica verso cui si sentiva più attratto. Inventandosi senza alcuna preparazione un mestiere di regista e anche un’opera prima mai realizzata, se non è mito costruito, per darsi una credibilità professionale. A vent’anni, nel 1945, il suo curriculum vantava già parecchi spettacoli e aveva incontrato la grandezza istintiva dell’attore nella persona di Paul Scofield, il primo di una serie di interpreti prediletti fra cui si conteranno anche sir John Gielgud e dame Jeanne Moreau. A trent’anni è un affermato protagonista della scena del West End londinese, ben introdotto in un giro internazionale in movimento fra Parigi e New York. La comoda definizione di enfant terrible del teatro inglese gli consente qualche stravaganza (un’impossibile scenografia commissionata a Dalì…) senza uscire da quel mondo fondamentalmente conservatore che da sempre assumeva la piacevolezza come valore principe.

    A dare una nuova direzione al suo lavoro sono una spinta interiore e uno spettacolo, lo sconvolgente Marat Sade che pure va in scena sotto la rassicurante ufficialità della Royal Shakespeare Company (a noi arriverà in forma cinematografica, con quegli straordinari attori Patrick Magee e Glenda Jackson). Una prova di forza al di là del dramma di Peter Weiss che inscenava la disputa ideologica fra Sade e il rivoluzionario francese che però è un ricoverato che ne fa la parte, in mezzo a un happening di follia teatrale spenta nel momento in cui massima è la confusione del pubblico. È un punto di non ritorno, e non solo per il regista. Cade in quegli anni, a metà dei sessanta, la separazione fra ricerca interiore e mestiere teatrale che aveva fin lì garantito a Brook un equilibrio vitale. La necessità di andare verso lo sconosciuto contagia anche il suo lavoro. Forma un gruppo sotto la sigla artaudiana di Teatro della crudeltà, con una scelta di campo significativa per un artista-artigiano che ha sempre diffidato delle teorie, tanto più se radicali e staccate dalla pratica della scena. Nel ’68 in cui culmina la rivoluzione teatrale del decennio esce il breviario della sua personale rivoluzione, da noi malamente tradotto Il teatro e il suo spazio – il titolo originale The empty space in maniera più immediata metteva di fronte a quello spazio vuoto che il teatro è chiamato a riempire. E le pagine di quel volumetto si sono ingiallite senza perdere il posto privilegiato sullo scafale più a portata di mano. Ecco l’immagine folgorante del regista come impostore, una guida notturna che non conosce il territorio e che pure non ha scelta: deve fare la guida, imparando la strada giusta lungo il cammino. Occorre confessare che sembrò una definizione che ci rappresentava?

    Tornando a sfogliare le pagine della sua biografia, affascinante romanzo di vita dove risaltano le figure dei genitori, immigrati ebrei che discutevano fra loro in una misteriosa lingua russa (la grafia originale del cognome era più correttamente Bryk) e l’omaggio alla bellezza della moglie Natasha Parry, vi ritroviamo prima di tutto la storia di un apprendistato. Dove alla cronologia dei successi artistici è dato ben poco peso. Contano assai di più gli “incontri con uomini straordinari”, come fin troppo facilmente vien da dire. Ecco l’incontro a Berlino con Bertolt Brecht, punto di riferimento per qualsiasi riflessione sul senso sociale del teatro. E Barrault, Beckett, Marguerite Duras, l’irritante Genet… Ma la guida alla penetrazione in uno spazio più enigmatico dell’esistenza, ora che fra teatro e vita non c’è più distanza, è la lezione di Gurdjieff, incontrata tramite una sua allieva, un’americana vestita come un uomo, con i capelli grigi cortissimi. Da lì viene in fondo la concezione della regia come lavoro maieutico durante la preparazione dello spettacolo, ma che deve scomparire al momento in cui lo spettacolo è realizzato, quando tocca solo agli attori farsene interpreti.

    Oggi quel libro è terminato e ci accorgiamo che qualcosa ancora ci sfugge del Peter Brook che credevamo di conoscere dai suoi spettacoli. La memoria ci riporta alla magia del Mahabharata, a quelle nove ore di immersione nelle immagini dell’antica mitologia indiana – nel caldo torrido di un’estate che il regista stesso ci invitava ad accettare come una parte dell’atmosfera dello spettacolo. Un punto d’arrivo, certo, e ci sembra lontano come un sogno.

     

    © Gianni Manzella

     

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