• Perduti nella danza. A Teshigawara Saburo il Leone d’oro della Biennale danza

    Una marionetta che cerca di rompere i fili che la legano. Un arlecchino senza più padroni. Era questa forse l’immagine che restava impressa al termine delle prime apparizioni di Teshigawara Saburo sui nostri palcoscenici – era stato soprattutto il Comunale di Ferrara ad assumersi il compito di far conoscere in Italia il poliedrico artista giapponese. Coreografo e danzatore, certo, ma anche film-maker e artista visivo, geniale manipolatore di luci, insomma performer nel senso più completo, e forse bisognerebbe dire artista-filosofo se il termine non suonasse consumato, per una capacità di sovrapporre lavoro e meditazione che deve molto alla sua cultura d’origine.

    Petrushka_Foto di Abe Akihito

    Ciò che immediatamente colpiva era la particolare qualità del gesto che Teshigawara sembra scolpire nello spazio. Come nel gelido Light behind light, ispirato alle fredde sfumature della luce nordica. Dove una lentezza rituale tratta dalla cultura scenica orientale, e accomunante la tradizione del teatro Nō a quella più recente del butoh, si intrecciava a improvvise accelerazioni, l’antico si fondeva nella modernità ormai post di un impero dei segni globalizzato. O l’inquietante Black water, forse la sua creazione più nota (arrivò anche alla Scala, se non ricordiamo male), siglata da un gocciolio d’acqua dal gusto vagamente horror che richiamava quella nera del titolo (era dark anche l’acqua del più bel film di Nakata Hideo). L’acqua come soglia fra la vita e la morte, fra una vitalità anche frenetica e un aldilà di immobilità. E in effetti qualcosa di ambiguo si insinuava nell’astrazione poetica del lavoro, vuoi per i fantasmi femminili in lenta metamorfosi portati sulla scena, vuoi per la mimica molto teatrale dell’artefice. Che danzava senza quasi muoversi dal posto occupato, spesso soltanto con le braccia o il busto, in una miscela di forza e fragilità.

    E allora il successivo Here to here era come risalire un fiume, tornare alla sorgente del suo gesto. Un solo con apparizioni, lo si poteva giustamente definire. Le apparizioni essendo anche qui fantasmi femminili, ombre slabbrate che si proiettano sul fondale della scena, una figura stregonesca uscita da epoche lontane per dar corpo all’incubo. Ma prima, e a lungo, c’era soltanto il protagonista che usciva progressivamente dal buio, figura che si stagliava in controluce all’interno del nudo cubo bianco della scena, dalle pareti che traspirano la luminosità, in un alternarsi di oscurità e penombra, di caldo e freddo, di giorno e notte. Sono solo le braccia a muoversi dapprima, sul fondo, prima che il corpo prenda rilievo e possesso dello spazio.

    Il gesto di Teshigawara è più ideogrammatico che geometrico, per così dire. Disegnato nello spazio con mano fluida. Alternando pause e bruschi scarti, come una punteggiatura. Le spalle che salgono. Le ginocchia che si piegano. Un ruotare del capo che trascina anche il busto. Improvvise accelerazioni partono e sembrano prendere energia da momenti di immobilità, in cui il corpo si concentra su di sé. In ascolto. È lui a guidare lo spettatore nell’esperienza singolare di un gesto che diventa tempo, che rende cioè percepibile la sua durata nello spazio. Fino a raggiungere la visibilità del primo piano, da dove può gettare in faccia al pubblico parole mute. Per farlo bisogna abbandonarsi al vocabolario di una danza che non racconta. Che è puro movimento. Che reclama il suo statuto al di là di qualsiasi contaminazione. Un ritorno al passato e insieme una fuga in avanti, nel segno di una opposizione che è forza creatrice.

    Una danza capace di “espandere il potenziale della coreografia oltre i limiti tradizionali”, afferma Wayne McGregor, direttore della Biennale danza che quest’anno assegna al quasi settantenne artista giapponese il Leone d’oro alla carriera. Per l’occasione Teshigawara Saburo porta a Venezia la sua personalissima versione di Petrushka, uno dei capisaldi del balletto classico, legato inscindibilmente alla grazia innaturale di Nijinskij che ne fu il primo protagonista, nello storico spettacolo dei Ballets russes, più di cent’anni fa. Teshigawara ne ha tratto un duo in cui, cancellati tutti gli altri personaggi, danza con Sato Rihoko l’amore impossibile della marionetta per la Ballerina.

    Lost in dance_Foto di Abe Akihito

    E all’inizio di novembre sarà ancora Ferrara a ospitare la prima italiana di Lost in dance che aveva debuttato subito prima dello scoppio della pandemia, con le sonate per pianoforte di Beethoven a fare da traccia sonora. “Dance, dance, otherwise we are lost”, diceva Pina Bausch. Sì, nella danza ci si può anche perdere.

     

    © Gianni Manzella

     

     

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