• Amleti. La tragedia di Shakespeare secondo Brook e Zadek

    Il teatro immediato di Peter Brook coltiva la capacità di fare a meno di tutto ciò che è superfluo. Grande semplicità di costumi e niente scenografia, un grande tappeto rosso a trapunta delimita il luogo dell’azione scenica, qualche cuscino e un paio di casse sono gli unici arredi. Quale più fascinosa scenografia del resto, per la sua Tragedy of Hamlet, dell’involucro cilindrico delle Bouffes du Nord, sapientemente conservato con le tracce prodotte dal tempo, dove il pubblico si accalca fino a toccare il perimetro dell’azione.

    Lo spazio scenico dell’Hamlet creato da Peter Zadek è invece una lontana terra di confine sul vasto palcoscenico snudato, occupato al centro da un container metallico messo di sbieco, con le pareti che si aprono per fare uscire i personaggi.

    È stata una singolare occasione, quella offerta dal Festival d’Automne parigino, di vedere negli stessi giorni due allestimenti del capolavoro shakespeariano, il testo che forse più di ogni altro può riassumere un’idea di teatro, per opera dei due maestri della scena contemporanea. Non solo due sensibilità e due sguardi differenti, ma anche due diverse concezioni della regia.     

    Per Peter Brook la regia ha uno scopo maieutico durante la preparazione dello spettacolo, ma deve scomparire al momento in cui lo spettacolo è realizzato, quando tocca solo agli attori farsi interpreti del lavoro. Per Zadek invece la regia è una sorta di imprinting che sottolinea in maniera indelebile la concezione dello spettacolo: nel caso dell’Amletopresentato a Bobigny, una matrice molto grigia e ‘tedesca’, da Danimarca ‘in autunno’, da anni di piombo a Elsinore.

    L’Amleto di Brook inizia lento e ritualizzato, con movenze da teatro orientale. Chi è là, dice una voce. L’attore che interpreta Orazio si fa avanti da un vertice del rettangolo scenico. Con un atteggiamento di attesa e di stupore. Dal vertice opposto avanza lo spettro del vecchio re, una figura dal corpo possente, avvolta in un mantello. Si volta, apre appena la bocca, va a sedersi da un lato. Amleto invece si commuove fin quasi alle lacrime all’incontro con quella presenza, così concreta e massiccia che è impossibile non credergli. L’abbraccia, piange di nuovo e si asciuga le lacrime col dorso della mano. È il sorprendente Amleto ‘rasta’, pelle scura e capelli a treccine, del giovanissimo attore inglese Adrian Lester, dotato di un’immediata forza comunicativa.

    Mettere in scena Amleto vuol dire spesso, prima di tutto, proporre un’immagine personale del protagonista, dare credibilità a un’idea interpretativa capace di staccarsi dalla visione sedimentata del giovane dubbioso vestito di nero e con un libro in mano. Ecco per esempio, scorrendo le pagine della memoria, Ingmar Bergman calcare sull’identificazione autobiografica, facendo dell’eroe una propria controfigura, e Eimuntas Nekrosius sottolinearne l’aspetto giovanilmente trasgressivo in contrasto con la plumbea presenza del vendicativo universo paterno e Carmelo Bene puntare alla sua vocazione all’arte, sulla scorta del prediletto Laforgue. L’Amleto di Zadek, che pure veste di nero e porta lo spadino al fianco, ha il corpo femminile di Angela Winkler, rinnovando la sfida che fu già di Sarah Bernhardt, a cento anni esatti di distanza.

    Entrambi i registi sono già passati, in altri momenti, per la messinscena di questo testo. Entrambi sono frequentatori attenti del teatro di Shakespeare. Brook l’aveva già affrontato negli anni cinquanta, in un’edizione londinese ‘accademica’ che non ha lasciò grandi ricordi. Ora che vi ritorna col suo gruppo cosmopolita, dopo una tappa di avvicinamento che rubava il titolo proprio alla prima battuta del dramma, Chi è là, il regista inglese non va alla ricerca di una nuova lettura del testo ma si pone davanti al testo come se fosse effettivamente nuovo: è una sfera di cristallo che girando ci presenta a ogni istante una faccia nuova, dice. Basta lasciarlo parlare perché ci renda immediatamente la sua capacità di evocazione e di affabulazione.

    Dunque nessun artificio. Alcuni cuscini in circolo bastano a ricreare la corte di Danimarca, e messi di taglio l’uno sull’altro inventano la fossa scavata dai becchini. Gli attori a volte interpretano più ruoli, senza alcun trucco o mascheramento se non il cambio di una giacca o lo spogliarsi di un mantello. Ma con accostamenti spesso rivelatori, giacché l’attore che interpreta lo spettro del vecchio re fa anche la parte del fratello usurpatore, sovrapponendo le due immagini del padre e del potere; e Bruce Myers, attore storico della compagnia, vestito all’indiana come fosse ancora nel Mahabharata, dà una medesima impronta comica a Polonio e al becchino che filosofeggia sulla morte, con un teschio di gomma innestato su una canna.

    Tutti i personaggi che non sono Amleto appaiono in qualche modo ‘raccontati’, fissati in un’immagine: e dunque sostanzialmente morti. Ecco l’evanescente figuretta di Ofelia, quasi disincarnata dalla danzatrice indiana che l’interpreta. E l’austera regina madre Gertrude, cui Natasha Parry dà uno stile sicuramente regale, immobile e quasi estranea nella semplice eleganza di una tunica con una stola violetta buttata sulla spalla. O gli intercambiabili Rosencrantz e Guildestern, sempre vestiti uguali, accoppiati anche come comici della recita. A dominare la scena, con una bravura non priva di qualche compiacimento, è dall’inizio alla fine solo il protagonista. Sbava dalla bocca e ringhia spiritato quando incontra Ofelia. Si spoglia e fa capriole alla notizia dell’arrivo degli attori. Si morde le labbra, urla e si butta a terra. Fa segno di sì col capo, allo spettro che riappare. In ginocchio recita il suo “to be or not to be” tormentandosi il polso come a volerlo tagliare.

    L’Amleto di Brook è un campione di ironia, un sarcastico inventore di giochi di parole che dovrebbero testimoniare la sua lucida intelligenza (qui sì c’è del metodo) piuttosto che la presunta follia. Così come l’Amleto di Zadek non sembra affatto malato di dubbi, va per la sua strada senza scosse, senza turbamenti visibili, quasi a voler esemplificare la lezione data ai comici – l’esagerazione diverte gli idioti, qui c’è poco da divertirsi. Che poi non è lontana dall’idea che il regista tedesco coltiva del teatro di Shakespeare: un teatro da dire senza pause, senza inflessioni.

    E infatti è significativa la differente accoglienza riservata ai due spettacoli, alle Bouffes continue risate del pubblico per uno spettacolo dai ritmi incalzanti, grazie anche ai forti tagli operati dal regista; mentre nella grande platea di Bobigny regna un silenzio rotto solo da trattenuti colpi di tosse. Due reazioni che la dicono lunga sulla malia della resa scenica, ma non per questo sulla qualità, delle due versioni.

    Zadek non si sottrae al compito di dare una ‘ambientazione’ alla tragedia, già percepibile nel clima nordico e notturno in cui ha inizio, con i soldati di guardia intorno al container nel deserto artico del palcoscenico, vestiti con lunghi cappotti e colbacchi, armati di fucili e pistole alla cintura, intenti a scrutare nel buio con una torcia. Qui l’apparizione dello spettro è un passaggio enigmatico, preannunciato da un lontano Lied e accompagnato dal suono di un campanellino, come un appestato, il volto riflesso da una lastra metallica. 

    Foto di Ursula Kaufmann

    Se l’Amleto di Angela Winkler è riportato a un’immagine piuttosto convenzionale, con quella calzamaglia e quella camicia nere, capace però di segnare anche una sua diversità teatrale e ‘in costume’, la corte ce lo restituisce ‘nostro contemporaneo’. O meglio, lo proietta in un universo mediatico, un po’ da rotocalco, che sembra riassumere con i suoi abiti di un’eleganza formale e antiquata l’intero Novecento. Il re Claudio si presenta in una divisa bianca da ufficiale di marina e gentiluomo, e avrà poi abiti borghesi nobilitati da una fascia a tracolla, come un principe di Windsor. La provocante Geltrude di Eva Mattes non cambia mai l’abito color porpora che fascia a stento un corpo di pienezza rubensiana, e può anche rendere ragione di qualche desiderio o adombrare qualche peccato della carne in famiglia. Orazio con la cartella dei documenti sotto il braccio e il cappello calcato in testa è un grigio funzionario o commissario politico. E Polonio un avvocaticchio che la fa sempre lunga e annoia gli ascoltatori, contento soprattutto quando può starsene in pantofole e veste da camera. Ofelia sfoggia un guardaroba invidiabile che la dice lunga sulla sua voglia di apparire e giustifica le tirate moralistiche del principe che si vorrebbe sottrarre al sentimento amoroso: eccola un po’ collegiale, in pantaloni e tacchi alti, con la treccia che le cade sul pulloverino, poi il vestito sofisticato da colazione da Tiffany, poi l’abito bianco portato in maniera sportiva, con le scarpe basse.

    Solo davanti a lei l’amletico principe si scuote per un momento. Strappa le sue lettere e gliele butta in faccia, le infila una mano fra le gambe, la scaraventa per terra – ma poi ritorna alla sua catatonica malinconia e alla sua sedia. Del resto c’è poco da divertirsi per il povero Amleto, in mezzo a questa corte da operetta che non capisce nemmeno l’oscena pantomima che gli attori mettono in scena e tocca a lui spiegare pazientemente quel che i comici vanno a replicare.

    Lo spettacolo di Brook procede invece per delicate invenzioni. Una sciarpa rossa è il corpo di Ofelia portata alla sepoltura. Due sottili canne sostituiscono le spade del duello. Alla fine sono tutti morti e tutti insieme si sollevano e restano immobili, mentre risuona la domanda dell’inizio: Who is there? Fortebraccio non arriva più. Si può solo ricominciare il gioco del teatro.

     

    © Gianni Manzella

     

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