• Triste, visionario e finale. L’Avaro delle Albe

    È figlio dei tempi questo Avaro del Teatro delle Albe. Triste visionario e finale. Come potrebbe essere diversamente, del resto. Anche lo spettatore meno avvertito sa ormai che Molière non è (più) soltanto l’autore di trovate farsesche messe in parrucca, sa che le sue commedie hanno un fondo nerissimo, che con i suoi Tartufo e Arpagone, con quei borghesi gentiluomini e quelle donne sapute qualche conto bisogna farlo, non c’è tanto da ridere, la partita non si chiude col sipario. Ma c’è di più, a ben pensarci, nello spettacolo ideato da Ermanna Montanari e Marco Martinelli. C’è, direi, la consapevolezza che quei personaggi sono usciti dalle loro stanze, dalla loro dimensione domestica, per invadere una sfera pubblica. Che anzi sfera pubblica e privata spesso combaciano.

    Non a caso, forse, inizia con lo svuotamento dello spazio scenico, questo Avaro. Via il tavolo d’epoca e il monitor poggiato su un carrello, via i riflettori e il pezzo di parete con finestra che mima un interno. Via tutto quello che era già lì. Per lasciare solo i velluti neri di contorno, sul palcoscenico del teatro Storchi di Modena. Come se fosse necessario uno svuotamento, perché il teatro si possa fare. E in quel vuoto che è il teatro, ricollocare arredi e attori. La congiunzione non è di maniera, anche loro, gli attori, sembrano oggetti di scena, manovrati a vista, illuminati in faccia con un faro a mano da spicci macchinisti. Tutti meno lui, Arpagone, che controlla il gioco di quelle pedine, in mano il microfono che è insieme suo scettro e strumento di dominio.

    Inizia con le luci accese in sala, come quando Leo de Berardinis invitava attori e pubblico a guardarsi in faccia, nel momento di attingere a sua volta alle parole di Molière per denunciare la malattia del paese nostro. Per ritrovare il senso di una comunità, all’interno della sala – si diceva allora. Che quella malattia si sia incancrenita è sotto gli occhi di tutti. Stupisce semmai l’indifferenza o l’assuefazione a questo stato di disgregazione. Così, l’avarizia non tocca più solo il denaro, è diventata metafora o per meglio dire comune denominatore di uno spaccato sociale. Si diluisce e degrada in una assenza di generosità che tocca i sentimenti non meno che lo sguardo che si posa sull’altro. E non stupisce che il potere sia in mano a un Arpagone. Vecchio e probabilmente malato, vicino alla morte, ma non imbarazzato a comprarsi l’amore di una ragazzina, anche lì tirando sul prezzo, uomo d’affari intesi come speculazione usura tassi di interesse.

    Qui Arpagone ha l’abito nero senza fronzoli che anche Molière portava in scena e la voce non confondibile di Ermanna Montanari, che esplora con l’amplificazione toni rauchi e bassi, irosi e suadenti, in una economia di gesti che denota la padronanza del suo ruolo. Se l’attrice si mette alla prova di panni maschili, come poteva permettersi Sarah Bernhardt, la regia di Martinelli gioca a confondere le tracce fra una luce crudele e lo sprofondare nel buio che lascia in luce solo un volto, come in uno degli ultimi Beckett.

    Il moltiplicarsi delle agnizioni, dei riconoscimenti, cui lo stesso regista presta corpo, rende derisorio il richiesto lieto fine. Cosa ci può essere di lieto in quei matrimoni per amore o per forza che siglano un nuovo contratto sociale, una nuova alleanza? Se l’avarizia redime l’avaro, come scriveva Cesare Garboli (sua la traduzione, ormai imprescindibile sulle nostre scene), cosa può redimere la sua corte? Lo blandiscono o lo combattono, indifferentemente. Sono fatti della sua pasta, troppo a lungo ne hanno subito la fascinazione. Il figlio vanesio di Roberto Magnani, che ucciderebbe per un abito nuovo, come i servi e gli innamorati (sono fra gli altri Alessandro Argnani e Luigi Dadina, Michela Marangoni, le divertenti Loredana Antonelli e Laura Dondoli). La cassetta di monete di cui l’avaro viene derubato diventa facilmente casetta, come fanno pensare le grandi lettere poggiate sul tavolo, pronte per un gioco di società. E non se ne esce. A meno di non sfidare l’artiglio da rapace con cui la protagonista si commiata graffiando l’aria.