• Er, omaggio filmico di Marco Martinelli all’arte d’attrice di Ermanna Montanari

    Ermanna cammina. Cammina lungo una strada che corre stretta e diritta fra i campi nei pressi di Campiano, il paese natale in terra di Romagna, posto lungo l’antica via romana fra Ravenna e Forlì. Vecchie case coloniche abbandonate, una terra piatta coltivata a grano, qua e là filari di alberi. Lo so perché l’attrice ne ha parlato tempo fa anche in un libretto di piccoli racconti. Ermanna cammina con un passo veloce, quasi una corsa. La cinepresa l’inquadra sempre di spalle. Ogni tanto rallenta per indicare con un gesto qualcosa che sta più in là, da un lato. Poi riprende il passo. Non c’è nulla in questo suo andare che l’apparenti al lento girovagare di W.G. Sebald, zaino in spalle, nelle campagne dell’Inghilterra meridionale.

    È l’immagine su cui Marco Martinelli ha disteso e cucito il suo labirintico Er, omaggio filmico all’arte d’attrice di Ermanna Montanari, per quarant’anni sua compagna di scena e di vita con il Teatro delle Albe. Cucito con materiali d’archivio, frammenti di riprese degli spettacoli ma non solo – e tuttavia non catalogabile alla stregua di un film documentario, sarebbe un fraintenderne il senso profondo. Che sta dalle parti della memoria. Dunque Er come firma di Ermanna, femminile del tedesco Hermann, nome che porta in sé l’etimo del guerriero tanto da sovrapporsi a quello di Arminio, il condottiero delle tribù germaniche che inflisse alle legioni romane una cruentissima disfatta nella foresta di Teutoburgo (Kleist ci scrisse sopra un dramma). Er però, ci ricorda Martinelli, è anche il nome del guerriero di cui Platone narra la discesa agli inferi dopo la morte in battaglia, nel decimo libro della Repubblica. Si narra che l’anima di Er uscita dal corpo cominciò a camminare e discese nel regno delle ombre. Er vide sette cerchi e su ogni cerchio una sirena cantava un’unica nota e le sette note creavano un’unica armonia. Così leggiamo sullo schermo mentre partono le immagini. Se ci servisse una chiave di lettura, il regista ce la fornisce subito.

    Parte anche una musica mediorientaleggiante ed ecco la prima sirena, Fedra regina suicida per amore che si dibatte fra le parole di Euripide e Marina Cvetaeva. È uno spettacolo di parecchi anni fa, Ippolito. Davvero è passato un quarto di secolo? Stenterei a crederlo se non ci fossero lì due giovanissime Chiara Lagani e Fiorenza Menni, ancelle adolescenti che premono premurosamente ossessive sulla protagonista con le loro domande: ti sei dichiarata? E da lì si scivola verso l’enigmatica vecchia signora che pianifica lo sterminio per veleno dei rumorosi vicini. Per dire che quell’ossessione che si gonfia può assumere diverse forme ma tutte rimandano a uno sprofondare dentro uno spazio oscuro della mente, dove bisogna farsi strada fra i fantasmi che popolano l’inconscio – che lì porti quel camminare, l’abbiamo capito subito. Lo spettacolo si intitolava Sterminio appunto, apice della breve stagione creativa e dell’istrionica sregolatezza della vita alcolizzata di Werner Schwab. Non per caso il nero che l’avvolge, rotto solo dal raggio delle torce che gli attori manovrano a vista, è lo stesso del balletto corale che circonda Arpagone, l’Avaro di Molière, incattivito dalla voce inconfondibile anche nel buio di Ermanna Montanari, in un concertato di toni rauchi e bassi, irosi e suadenti.

    Per venirne fuori bisogna rivolgersi all’asinella parlante di Siamo asini o pedanti? che vediamo in camerino mentre si sistema con cura le lunghe orecchie e poi all’esterno, davanti a un casolare nella campagna. E lì davanti arriva anche la Belda di Lus, strega di paese in un tempo che affonda nel passato remoto, al cui passaggio tutti si fanno da parte, ridono o sputano tre volte per terra, ma nel segreto della notte poi vanno da lei, malati nel corpo e nell’anima. La sua parola è preghiera e maledizione, come la lingua in cui si incarna, che la trascina in quel fondo nero dove l’imprecazione si rovescia d’improvviso nel bisogno di una lus, di luce, come Goethe morente. Qui diventa protagonista la lingua romagnola di Nevio Spadoni. Lingua aspra, misteriosa come gli incantamenti che tramano il testo. Quella di queste parti, forse la sua forma più arcaica, sarà perché resa più appartata dalla geografia.

    Ma intanto è cominciato un salutare sfrangiarsi delle immagini che, una volta uscite dallo spazio del teatro, rimescolano la sequenza troppo rigida delle sirene. Ecco il ballo degli scheletri di Perhindérion sulle note veloci di un liscio – che altro se no? – intrecciarsi con il riquadro di uno schermo televisivo in bianco e nero dove è comparsa la Madre Ubu di Jarry, Medar Ubu anzi, al romagnolo ormai non si sfugge. Siamo sulla soglia dei Polacchi, una delle creazioni più amate delle Albe, però colta appunto nelle sue propaggini. Come la processione danzante che si ingrossa per via in un villaggio africano, guidata dall’attrice tutta in bianco e con ombrellino da passeggio, mentre risuona la domanda di Rosvita: dov’è il paradiso? Se c’è un colore che mi fa impressione è il bianco, sembra rispondere un’altra figura femminile che dona all’immagine del guerriero un’ulteriore declinazione. L’ultima sirena è la combattiva madre di Marco Pantani.

    Intanto Ermanna non ha smesso di camminare. E un poco alla volta ci si accorge che in quel borbottio che accompagna il suo andare sembra di udire parole che conosciamo. Tomorrow and tomorrow and tomorrow… Sono le parole dell’ultimo monologo di Macbeth. Domani e domani e domani. Fino all’ultima sillaba del tempo fissato. Forse in fondo alla strada c’è di nuovo un teatro.

     

    © Gianni Manzella