• Rimbomba a Prato la commedia nera dei Due gemelli veneziani

    È una commedia nerissima I due gemelli veneziani. Il mondo è ancora quello della commedia dell’arte, con i suoi equivoci e intrighi. Ma è un mondo ormai in disfacimento, dove solo l’interesse scuote l’indifferenza che schiaccia il gran daffare dei giochi amorosi. Le maschere della commedia dell’arte, Arlecchino e Brighella, sono ridotte al margine dell’azione, testimoni di un’epoca di felice creatività ma superata dai tempi. Sulla scena della commedia di Goldoni si manifesta una nuova realtà sociale, un mondo mercantile che rivela l’emergere di una nuova classe sociale sugli impotenti relitti di una finta aristocrazia, dove le antiche formule di cortesia, spogliate degli inchini e delle moine settecentesche, appaiono parole vuote. Si parla d’amore ma dell’amore resta piuttosto la degradazione, il mercanteggiamento dei sentimenti. Un tratto di crudeltà pervade la commedia.

    Quando Goldoni scrive I due gemelli veneziani, quarantenne, ha ormai maturato la scelta di ritornare a Venezia e dedicarsi interamente alla propria vocazione teatrale. La sua “riforma” del teatro deve ancora compiersi e tuttavia tutto sembra prefigurarla in questo testo già così “borghese”. Goldoni rielabora il tema classico, di derivazione plautina, dei due gemelli che capitano nella stessa città e vi sperimentano due avventure parallele, l’uno all’insaputa dell’altro. Ma vi innesta una commedia di caratteri costruita a partire proprio dalla contrapposizione dei due personaggi: sciocco l’uno, Zanetto, quanto è spiritoso cioè brillante e civile uomo di mondo l’altro, Tonino. Sicché ai prevedibili equivoci farseschi generati dagli scambi di persona in cui sono coinvolti gli amici e i conoscenti e l’amante del secondo, Beatrice, si intreccia il gioco scenico che costringe l’interprete a misurare lo stacco dei due caratteri. I due personaggi sono infatti destinati fin dalla concezione originaria a essere interpretati da un unico attore.

    E tuttavia il meccanismo della commedia funziona a meraviglia. Così almeno ci dice la memoria, riandando al lato musicale della lontana messinscena di Alfredo Rodriguez Arias con il suo gruppo franco-argentino T.S.E., dove tutto quell’andare e venire diventava un minuetto travolgente, quasi una coreografia capace di fare il verso all’eleganza del Settecento. O in anni più recenti, a quella bellissima di Luca Ronconi che andava in cerca dei valori formali del testo, ritrovando anche qui le specularità del prediletto teatro barocco.

    C’è invece ben poco da ridere nei Due gemelli veneziani cupi e notturni che il regista Valter Malosti ha presentato al Teatro Metastasio di Prato. Non per caso lo spettacolo, nell’adattamento firmato con Angela Demattè, parte dalla fine, dall’uccisione del più indifeso dei due gemelli cui seguirà il suicidio del colpevole col medesimo veleno, che toglie qualsiasi peso specifico alla conclusione romanzesca, con i suoi inevitabili matrimoni a catena – un ribaltamento temporale che si riverbera come un imprinting sull’azione, quasi un costante memento che lì si andrà a finire. (Voglio dire che questa distorsione temporale, questo ritorno a un futuro anteriore che è un po’ la memoria del futuro di cui parlava Ernst Bloch, pone comunque un problema anche all’ipotetico spettatore ignaro del testo di Goldoni, giacché orienta la visione nella direzione di una veglia funebre o una cerimonia della memoria accanto a un morto). Ecco allora disteso su un tavolo il corpo del povero Zanetto, come fosse già alla morgue, mentre lì accanto gli saltella un incongruo Pulcinella. Sarà forse per la riconosciuta prossimità con gli inferi della terra da cui esce la maschera campana, terra di vapori sulfurei. E del resto questa derivazione partenopea contagia singolarmente anche l’Arlecchino divertente e spaesato di Marco Manchisi, a sua insaputa servitore di due padroni – ma qui conta soprattutto la lezione magistrale di Leo de Berardinis.

    Se però si volesse inquadrare il progetto registico, tanto dal punto di vista del contenuto quanto da quello visivo, verrebbe spontaneo citare il melodramma ottocentesco, richiamato anche dai costumi di Gianluca Sbicca ondeggianti fra redingote e cappelli a cilindro. Il sound design, come oggi si dice, lo traduce in un rimbombare minaccioso di tuoni e altre luttuose rumorosità, in gara con l’eco delle voci fortemente amplificate degli interpreti. Fra cui accanto al protagonista Marco Foschi spicca la combattiva Beatrice dell’impeccabile Irene Petris a confronto della seduttiva Colombina di Camilla Nigro, già tentata da qualche rivendicazione di classe.  

     

    © Gianni Manzella

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