• Renato Carpentieri l’artefice magico. Massimiliano Civica mette in scena a Prato La stoffa dei sogni

    Noi siamo fatti della stessa stoffa dei sogni e la nostra breve vita è racchiusa da un sonno, dice il mago Prospero prima di sciogliere le sue arti magiche. La vicenda della Tempesta volge alla conclusione. Non c’è dubbio dove Armando Pirozzi abbia tratto il titolo de La stoffa dei sogni. E del resto il nome di Shakespeare e dei suoi personaggi, le parole dei suoi drammi aleggiano continuamente sulla commedia che Massimiliano Civica ha portato sulla scena del teatro Metastasio, a Prato. Non c’è da stupirsene, posto che il suo protagonista è un vecchio attore e la commedia è in fondo un “ritratto dell’attore da vecchio”. Come quelli ritornanti ossessivamente nell’opera teatrale di Thomas Bernhard. Il vecchio attore di Einfach Kompliziert, che fu celebre per la sua interpretazione del Riccardo III e ora vive nella voluta desolazione di una grande stanza dove le macchie lasciate dai quadri rimossi testimoniano di un antico splendore. I due vecchi fratelli di L’apparenza inganna, l’artista giocoliere e l’attore di teatro, divisi dalla medesima aspirazione perfezionistica. Grandezza e miseria, perfezione e mediocrità…

     

    Qui, ne La stoffa dei sogni, lui arriva a casa della figlia in una piovosa notte invernale. Una tempesta scespiriana, commenta lui. Parla per citazioni. Mai avuta la sfacciataggine di un Riccardo III,  l’inverno del nostro scontento. Si capisce che non si vedono da tempo, lei fa quel che può per far capire che è infastidita, lui cerca di dimostrare un affetto e un’attenzione che fino a quel momento non deve aver mostrato spesso. Sono passato solo per sapere come stavi. Quanti bambini hai? Ma sono ragazzi ormai. Lei gli offre di restare lì, se vuole, per la notte. Per terra, sul tappeto. Il cane ci sta benissimo, ci piscia in continuazione. Poi alzati e vattene. E per favore non chiamarmi tesoro di papà, non farlo mai. Ma c’è una lunga nottata da passare. Tutta nodi e garbugli. Non è facile sbrogliare la matassa di rancori e recriminazioni, di sentimenti mancati e di incapacità di esprimerli.

    Foto di Duccio Burberi

    Sei un buffone, gli dice lei. Ma sono rispettabile, replica lui. Non ho fatto il successo di certi altri pagliacci che so io, ma vado a testa alta. E tira fuori dalla tasca un naso rosso da clown e buffoneggia senza ritegno. Insomma, gratta Thomas Bernhard e sotto ci trovi Eduardo. Che tradusse La tempesta in una morbida lingua napoletana seicentesca, come dimenticarlo. Come dimenticare la voce registrata del grande artefice che recitava tutto il testo nella notte di una lontana Biennale veneziana. Ma qui più che a Prospero e a “la stoffa de li suonne” viene da pensare a quel Sik-Sik l’artefice magico che muove dalla farsa napoletana per mettere in luce la malinconia del mondo dell’arte, colto dal giovane Eduardo al suo livello più basso. Un illusionista da quattro soldi che finge un’eleganza che non ha. Se ne sente quasi l’eco nella voce del protagonista. E c’è un buon motivo.

    Al centro de La stoffa dei sogni campeggia Renato Carpentieri, grande attore della tradizione napoletana che è come dire l’unica tradizione nazionale di cui disponiamo. Da quarant’anni e passa fra i protagonisti della scena più innovativa, dagli inizi al fianco di Antonio Neiwiller alla lunga frequentazione del teatro e del cinema di Mario Martone e tanto altro ancora. Qui offre al suo personaggio una dimensione maestosa, spostandosi continuamente dal registro alto a quello basso e poi di nuovo verso l’alto, come insegnavano i maestri orientali.

     

    Con molta discrezione, Civica ha disegnato con le luci per Carpentieri un quadrato al centro del palco. Pochi arredi di vimini per dare l’idea di un’ambientazione domestica, ma non c’è dubbio che si tratta piuttosto dello spazio di uno scontro, dove conta solo lo stile della lotta degli antagonisti. Che poi sono una sola persona, come si comprende quando entra in gioco una terza figura, la giovane spalla dell’attore. In cui lui però, in un suo sogno allucinatorio, traspone sé stesso trentenne, quand’era il momento delle scelte. Cioè tu sei me alla tua età. La famiglia, la figlia appena nata che avrebbe voluto chiamare Miranda oppure il teatro, la sua arte. Sapendo già che non sarebbe mai diventato Laurence Olivier. Sì, è il momento in cui nodi e garbugli non si possono più nascondere. Perché l’arte inseguita l’ha portato a una lotta per la quotidiana sopravvivenza, serate in posti sconosciuti a recitare sketch di cabaret. Hai voglia a dire che è sempre bello. Se un attore non fa Shakespeare è solo perché non è un grande attore. Ma tu puoi perdonarti? gli chiede il suo più giovane alter ego.

    Gli altri due (sono Vincenzo Abbate e Maria Vittoria Argenti) restano fuori da quel quadrato luminoso, nell’ombra, quando non sono di scena. Sparring partner buoni per guardare in fondo al gioco. Cioè con una precisa funzione drammaturgica. E lo si vede alla fine, quando insieme decidono di fare un’improvvisazione, un duello alla maniera di Shakespeare per la mano della regina. La figlia sarà la regina. E così il teatro torna fuori, inevitabilmente, perché attori sono, fatti come sono fatti i sogni, non la smettono mai di recitare. Persino il monologo di Amleto. Anche se per lui sarebbe meglio Lear, così ingiusto con la figlia Cordelia.

    È quasi l’alba. Come tutte le opere di Eduardo, anche quella di Pirozzi finisce col perdono, cioè con un abbraccio. E con la formula rituale con cui finivano gli spettacoli in India. Possano sempre tutti gli esseri viventi restare liberi dal dolore.

     

    © Gianni Manzella