• L’arte della commedia allo specchio. Fausto Russo Alesi mette in scena Eduardo

    Pirandello non c’entra, dice a un certo punto Oreste Campese. Il capocomico sta conversando con sua eccellenza il signor prefetto, da cui si è recato a chiedere sostegno perché un incendio ha distrutto il capannone dove recitava la sua modesta compagnia. E nella conversazione è venuta fuori la perenne questione della “crisi del teatro” che c’era allora, all’inizio del 1965 quando la commedia di Eduardo De Filippo aveva debuttato al San Ferdinando, come volendo c’è ancora oggi che L’arte della commedia torna in scena nel medesimo teatro napoletano per opera di Fausto Russo Alesi che ne è anche il protagonista (la produzione è dei teatri di Napoli e della Toscana e della compagnia Elledieffe). Colpa della mancanza di nuovi copioni in grado di divertire il pubblico, sostiene l’eccellenza; colpa della “confusione” che fa comodo a molti, replica il sofistico Campese, ponendo la questione che gli interessa: se il teatro abbia o meno un interesse pubblico. Non siamo personaggi in cerca d’autore, ma attori in cerca di autorità.

     

    Commedia minore e imperfetta, l’aveva definita Natalia Ginzburg, che poi però annotava la sensazione di trovarci in presenza di una grande vicenda teatrale. E certamente Eduardo vi aveva investito molte delle sue riflessioni artistiche e politiche di quegli anni e molte anche delle sue recriminazioni. Come le difficoltà economiche sorte dalla riedificazione del San Ferdinando, che Eduardo aveva acquistato in macerie nel dopoguerra, così come l’avevano lasciato i bombardamenti americani – oggi ci appare incastonato dentro un condominio ma con soluzioni ancora mirabili come il palcoscenico a pedane sovrapposte sostenuto da una palafitta di pali di legno. O i suoi inascoltati pubblici atti d’accusa, con tanto di lettera aperta al ministro del momento, contro un sistema teatrale che gli appare dominato da clientele parassitarie. Da poco era stata abolita la censura preventiva dei testi, quella che impediva di parlare in scena di sesso religione suicidio infedeltà coniugale (femminile, naturalmente). Sostituita da una più sottile e pericolosa autocensura. Temi sensibilissimi per Eduardo, di cui si fa portavoce il capocomico ma che impregnano per intero L’arte della commedia.

    Foto di Anna Camerlingo

    Non stupisce che la commedia fosse stata messa da parte dal suo autore e ripresa solo per un’edizione televisiva del 1976, quando aveva ripristinato anche il prologo che inquadra e dà unità a queste due commedie in commedia. La scena è ancora vuota e immersa nell’oscurità quando dal fondo emerge il protagonista. Da un lato, seduto su una seggiola, un assistente o forse il suggeritore della compagnia legge dal copione che tiene in mano la descrizione della scena. E sono le sue parole a evocare i personaggi che lentamente compaiono, il piantone di guardia al palazzo prefettizio, la padrona dell’osteria che fornisce i pasti. Quando la situazione si è delineata e i due comprimari scompaiono da una botola nelle profondità del teatro, viene tirato su il fondale che stava appoggiato sul palco, mentre la voce di De André dà voce al valzer di un amore. Vola il tempo ma non ti servirà il ricordo…

     

    Senonché quello che appare davanti a noi è il retro del fondale con l’intelaiatura in vista e la porta aperta al centro da cui si scorge, dall’altra parte, una scena arredata con il tavolo e le sedie che verranno un po’ alla volta portate di qua – occasione anche per qualche gag, come quando il prefetto dice “poggia qua” al piantone che ha portato il caffè ma il tavolo ancora non c’è. Tutto è doppio in questa Arte della commedia. O meglio, tutto è ribaltato in un continuo gioco di specchi a partire dal titolo che rovescia palesemente la commedia dell’arte di quei comici un tempo messi ai margini della società e adesso chissà – era stato Shakespeare dopo tutto a dire che scopo del teatro è di porgere uno specchio alla natura, Oreste Campese volentieri sottoscrive.

     

    Due commedie in commedia, si diceva, a proposito appunto dei comici dell’arte. Tali ci appaiono infatti i due atti che si rispecchiano sulla scena disegnata da Marco Rossi. Perché se il primo è tutto imbastito sulla partita che si gioca fra il dimesso ma non remissivo capocomico che ha i suoi rospi da tirar fuori e il catalogo delle idee correnti allestito con perfidia flaubertiana da Eduardo per essere sciorinato dal prefetto De Caro insieme alla sua spalla, il capo di gabinetto dal burocratico cinismo della romanità ministeriale, e insieme sono una perfetta coppia comica Alex Cendron e Paolo Zuccari – se il primo atto inscena la teoria, per così dire, il secondo ne è la dimostrazione pratica.

    Viens voir les comédiens, voir les musiciens, voir les magiciens, canta Charles Aznavour. Scompare Campese per ritornare solo alla fine in veste di riluttante deus ex machina e di fronte ai rappresentanti delle istituzioni prendono campo i teatranti. Perché il prefetto si è fatto persuaso che quelli che si presentano uno dopo l’altro davanti a lui sono gli attori della compagnia. Il medico del paese che vuole veder riconosciute le sue capacità professionali. Il farmacista che reclama la licenza per l’attività che gli è stata tolta. Il parroco alle prese con il sediario comunista e con la ragazza madre che vuole lasciargli il neonato in chiesa. La maestra venuta dal sud che vorrebbe espiare una colpa che nessuno è disposto a riconoscere, la morte presunta di un bambino che per gli altri è ancora vivo all’interno della famiglia – ed è bravissima Imma Villa nel moltiplicarsi a evocare i suoi negatori (ma citiamo anche gli altri interpreti che sono David Meden, Sem Bonventre, Filippo Luna, Demian Troiano Hackman e Michele Schiano di Cola). Un campionario di storie viste dal buco della serratura, come ha appena teorizzato Campese.

    Qui la teatralità esplode attraversando la farsa e la sceneggiata, il grottesco tira verso la comicità slapstick e la commedia larmoyante, in un moltiplicarsi di apparizioni vampiresche e ondeggiare di zombies e luttuose figure velate che un poco fanno il verso a certe messinscene pirandelliane, metti la madre dei Sei personaggi. E viene il sospetto che ci giochi anche Eduardo in questo gonfiare il dubbio per poi apparentemente scioglierlo e poi di nuovo rivelare l’inganno che sta dietro al “come tu mi vuoi”. Ma intanto, in mezzo a questo trascinante dilagare di buffonerie, emergono quei temi, come il divorzio e la libertà di vivere i propri sentimenti, che sono allergici ai fautori della censura.

     

    Sono attori o quel che dicono di essere? Non scioglie il dubbio neppure il pirotecnico finale. Non serve la morte per veleno del farmacista ed è uno stralunato balletto meccanico di spasmi e contorcimenti, di salti e rotolamenti a terra, dunque anche difficile da credere. Ma quale verità volete sapere? chiede il riapparso Campese. Che importa se ci troviamo di fronte a un farmacista vero o un farmacista falso? Attori o non attori i fatti non cambiano. Lo specchio del teatro bisogna attraversarlo.

     

    © Gianni Manzella

     

     

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