• Non distogliere lo sguardo. Mundruczó mette in scena Disgrace di J.M. Coetzee

    Non ci si era sbagliati nel riconoscere il talento di Mundruczó Kornél davanti al disturbante Frankenstein-Project con cui si era affacciato sulle scene europee, prima di tradurlo anche in forma cinematografica. Il giovane regista ungherese trasportava la fragile impalcatura del romanzo di Mary Shelley in un set rimediato dentro un capannone attrezzato a mensa per rifugiati, durante un casting per un film da farsi che progressivamente portava allo scoperto un garbuglio di vincoli affettivi. Per rivelare dietro al meló in agguato, buttato via con una sorta di irrisione per la sua verosimiglianza, un rivelatore sentimento del nostro tempo, il sentimento di una insoddisfazione che si allarga ben al di là della cerchia di quei poveri mostri che ci appaiono nel finale.

    • Foto: Behrouz Mehri/AFP Foto: Behrouz Mehri/AFP
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    • Foto: Cristophe-Raynaud-de-Lage Foto: Cristophe-Raynaud-de-Lage
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    • Foto: Márton Ágh Foto: Márton Ágh
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    C’è lo stesso apparente disordine, la stessa sensazione di troppo pieno nella scena che accoglie lo spettatore del bellissimo Disgrace presentato da Romaeuropa al teatro del Vascello. Una struttura precaria, costruita su una superficie di pallet industriali, si dilata in orizzontale. Nella penombra si intravedono ambienti ingombri di cose, spazi domestici che si aprono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, in una sorta di semicerchio a contorno di un riquadro terroso. L’abbaiare di un cane, dietro le quinte, non appare incongruo a chi ha letto il romanzo di J.M. Coetzee che sta all’origine dello spettacolo.

    Uno scoppio di musica ad alto volume è il segnale d’inizio dell’azione, subito violenta. La voce di una segreteria telefonica accompagna i gesti della giovane donna che si alza da un divano. I messaggi lasciati da un’altra donna fanno comprendere che c’è stata una separazione, forse ancora non elaborata da entrambe. Quattro uomini irrompono nella stanza. L’afferrano per le braccia e le gambe, a terra. Le tolgono i vestiti, mentre lei inutilmente urla il suo rifiuto. È una violenza lunga, ripetuta, angosciante nell’iterazione di un atto che sembra non finire più. E a cui non si può sfuggire, che cioè si è costretti a guardare in quella intollerabile durata. Quando è finita, l’attrice si rialza, con un sommesso “venite” chiama in scena tutti i compagni e per un momento c’è solo silenzio.

    Mundruczó ha scelto di spostare all’inizio dello spettacolo l’episodio che sta al centro del romanzo e in qualche modo ne rappresenta la chiave di volta. Ma ancor di più ha scelto di rendere visibile, ossessivamente visibile bisognerebbe dire, ciò che nel romanzo non lo è, del cui prodursi nel romanzo si può solo immaginare, giacché Coetzee assume lo sguardo impotente del padre della ragazza, malmenato dagli aggressori e chiuso nel bagno della casa durante lo stupro. Questo spostamento dello sguardo cambia necessariamente la prospettiva della vicenda, come cioè la guardiamo. La disgrace del padre (la sua vergogna, nella traduzione Einaudi del romanzo), rivissuta in una sorta di flash back in presenza di un pubblico che comprende anche la figlia, diventa racconto, viene coniugata al passato per quanto non remoto invece di imporsi con la forza del presente. E assume, quasi di conseguenza, toni buffoneschi, da tragedia di un uomo ridicolo di fronte al dramma della figlia.

    Intellettuale bianco cinquantenne, il professor David Lurie tiene lezioni di poesia romantica inglese a pochi ragazzoni che lo ascoltano di malavoglia. Senza un’intenzione precisa, abborda per strada in una giornata di pioggia una sua studentessa e la porta a casa, le infila le mani sotto la corta gonna della divisa scolastica. Lei prima dice è tardi, devo andare, poi si spoglia veloce del vestito. E il resto non dobbiamo solo immaginarlo. Potrebbe finire lì, nel corale Glory glory hallelujah che accompagna uno sventolare di bandiere bianche. Ma lui precipita in una ossessione erotica, fra richieste d’amore e mazzi di rose bianche, per finire coi frammenti di un discorso amoroso a pezzi di fronte a una derisoria commissione d’inchiesta che non sfigurerebbe in un film dei fratelli Marx, il livello di strampalata comicità è un po’ lo stesso. Del resto lui si dichiara colpevole ma non pentito.

    C’è nel lavoro di Mundruczó un costante richiamo alla teatralità, anche nelle sue forme più basse, per cui non ci si dimentica per un attimo che di finzione si tratta. Gli attori passano da un ruolo all’altro, senza preoccuparsi di qualsivoglia mimesi. Età e sesso non contano. La pioggia si pompa leggera da uno spruzzatore portato in spalla, un’eccessiva parrucca riccioluta basta a farne degli africani quando serve così come tutti, a petto nudo, si trasformeranno alla fine in cani ringhianti. Anche perché di attori bravissimi si tratta, capaci davvero di tutto, la grande scuola dell’est che ancora tiene, a cominciare dall’emozionante fragilità di Tóth Orsi, dai biondi capelli cortissimi, protagonista fin dagli esordi anche nel cinema di Mundruczó. Ma proprio questo gioco, che solo il teatro consente (non è un caso forse che lo stupro familiare filmato da Mundruczó in Delta sia invece reso quasi invisibile dalla distanza della ripresa), rende impossibile rifugiarsi nelle pieghe consolatorie della fabula. Come se quella clownerie che ogni tanto dilaga servisse a bilanciare ma anche a rendere più nitido quanto vi è di insopportabile nella visione di Disgrace. La verità che ci trasmette la scena, a cui non possiamo sottrarci. Qui stiamo e non nel lontano Sudafrica di Coetzee.

    Del resto è evidente che non di una rappresentazione del contenuto del romanzo si tratta. E parlare di fedeltà al testo non ha più molto senso, a meno di non ritornare a una concezione letteraria del teatro. Mundruczó prende dal romanzo una situazione e i suoi personaggi e, rovesciando la prospettiva dal maschile al femminile, si infila fra le pieghe segrete di un dramma familiare come struttura capace ancora di narrare il presente.

    E siamo di nuovo a quella scena iniziale, questa volta proiettata sui bianchi teli tirati come un sipario a velare gli spazi chiusi dell’azione, dietro ai quali sembra svolgersi uguale. Di nuovo monta l’angoscia di non potere (eticamente) distogliere lo sguardo da quell’insopportabile violenza. La ragazza è già per terra, all’aprirsi del sipario, quando qualcuno dice: questa scena l’avete già vista, no? E infatti è impressa nella retina, inutile ripetere. Ma serve sapere che da lì si riparte. Da quella violenza e da quella vergogna di chi, pur senza colpa (questo infatti è disgrace), ne accetta il prezzo in una sorta di silenziosa resistenza passiva, fino a non denunciare uno dei colpevoli neppure quando se lo trova di fronte nella casa del vicino che le offre protezione, compreso un simbolico matrimonio riparatore. Per restare sulla terra che ha scelto non più da occupante. La scena viene liberata di tutti gli arredi che l’ingombravano, sotto il pavimento di pallet riappare la terra. Su di essa i neri tornano ballare, in mezzo all’ululare di cani che ci assomigliano.

     

     

     

     

     

     

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