• È difficile essere un dio. Su una scena splatter, la violenza etica di Mundruczó Kornél

    Trudno byt’ bogom, è difficile essere un dio. Il nome di Arkadij e Boris Strugackij non compare fra i crediti di Hard to be a god, lo spettacolo presentato da Mundruczó Kornél al festival della Biennale teatro veneziana. Ma il titolo lascia pochi dubbi, non vi è dubbio cioè che da lì sia partito il regista ungherese per costruire lo spettacolo. E del resto l’attore che ha accolto gli spettatori all’ingresso nello spazio allestito all’interno del parco Albanese, zona Bissuola, nella periferia di Mestre, lo ritroviamo di lì a poco issato sul tetto del tir parcheggiato dove convenzionalmente dovrebbe trovarsi la scena. Si presenta come Rumata, il nome del protagonista del romanzo. E il dialogo con l’invisibile interlocutore sembra parafrasare quello che, all’inizio del romanzo, si svolge con il capo della missione intergalattica. Sei uno scienziato, gli dice l’altro. Un osservatore. Non un soldato. Non deve interferire, queste sono le regole d’ingaggio. Se Rumata non ce la fa, può farsi sostituire.

    Foto di Andrea Avezzù

    Era il 1964 quando uscì il romanzo dei fratelli Strugackij, durante il breve disgelo vissuto dall’Unione sovietica di Nikita Chruščëv uscita a fatica dallo stalinismo. E l’ambientazione fantascientifica poteva forse, in quel momento, allentare l’attenzione della censura; già dall’anno successivo la stretta repressiva del regime cominciava però a stringersi sul loro lavoro.

    Lo spettacolo teatrale va per un’altra strada, come si poteva prevedere, ma quell’imprinting resiste indelebile. Qui non siamo su un lontano pianeta della galassia, percorso da orde barbariche, ma in un angolo seppur periferico di un’Europa contemporanea non ugualmente pacificata, par di capire. Con tutte le contraddizioni di un processo di integrazione incompiuto. Siamo in un parcheggio di camion o qualcosa di simile. Un telone fa da parete laterale al lungo rimorchio che ci sta di fronte. Quando viene tirato, come un sipario, appare uno spazio ingombro, dove ci si muove a fatica. Ci sono degli stender con file di jeans appesi, un letto a castello, scaffalature piene di cose, tavolini con macchine da cucire… Una sartoria clandestina dove si confezionano abiti per qualche griffe di alta moda.

    Hard to be a god risale al 2010 e, a vederlo ora, funge il qualche modo da tratto d’unione fra il bellissimo Frankenstein Project, il primo lavoro della compagnia Proton Theatre che vedemmo a Santarcangelo, e lo sconvolgente Disgrace che ribaltava la prospettiva del romanzo di Coetzee dal maschile al femminile (Vergogna titolava la traduzione di Einaudi ma il termine inglese ha una sfumatura in più) – indimenticabile come la sua protagonista Orsi Tóth, volto anche del cinema di Mundruczó. Del primo lavoro riprende il richiamo cinematografico, c’è di mezzo anche qui il set dove una strampalata troupe ha in mente di girare una sorta di film horror che dovrebbe smascherare il perbenismo conservatore di un uomo politico, un membro del parlamento europeo, che forse si è macchiato di crimini orribili. Ci sono i due produttori dalle vedute non proprio combacianti, un regista con una meritata fama di sadismo e infatti ha piuttosto l’aspetto di un macellaio, un vecchio ragazzone perennemente immerso nell’hard rock che ascolta in cuffia, la supposta proprietaria della sartoria che però è occupata soprattutto a procacciare ragazze, si sa che quelle dell’est hanno un bel mercato in Occidente. Si fa chiamare Mamy Blu. E allora tutti a cantare Oh Mamy, oh Mamy Mamy Blue o Mamy Blue, il vecchio hit dei primi anni settanta che ebbe decine di interpreti. Ne ha convocate tre, mercanteggiando su prezzo e prestazioni, e subito le vediamo all’opera, cioè a mostrare sculettando la merce in vendita (fra loro Kata Wéber che è soprattutto la sceneggiatrice e drammaturga di parecchi lavori di Mundruczó, da Imitation of life a Piece of a woman, che vedremo a Roma a settembre).

    Le riprese del film si svolgono all’interno di un altro tir che sta di traverso, su un lato, ne vedremo quel che viene catturato (anche in primissimi piani) da una videocamera manovrata a mano e proiettato su una fiancata del mezzo. Dove si va a finire, in mezzo a quei mostri, non è difficile immaginarlo. Violenze di ogni genere, stupri torture azioni umilianti tanto sangue dappertutto. La prima ragazza finisce orrendamente ustionata. Ancora peggio va alla seconda, goffamente strangolata per sbaglio mentre si gira la scena cruciale del film. Però tutto quel sangue, quello splatter così esibito e visivamente non credibile, hanno l’effetto evidente di togliere peso e tensione alla vicenda imbastita. Di spingerla nei pressi rassicuranti della parodia. Siamo lontanissimi dalla violenza di Disgrace, così vera per quanto ne fosse continuamente sottolineata la finzione. E infatti a momenti tutti si fermano e si mettono a cantare. Non solo Mamy Blue, anche un blues o Burt Bacharach, addirittura uno spiazzante (in quel contesto) What the world needs now is love. Un musical dunque, né più né meno.

    Foto di Andrea Avezzù

    Poi c’è l’altro protagonista, l’uomo venuto da un altro pianeta che lì ha assunto i panni di un pavido “dottore” incaricato della salute della troupe, come un qualsiasi Clark Kent. Siamo simili a un dio che osserva da lontano ma non interviene, gli ha detto il capo della missione. Fino a che non resiste più, davanti a quell’orrore che non finisce. Le luci si alzano sulla platea e lui chiede se qualcuno fra il pubblico può venirgli in aiuto. È il momento più debole dello spettacolo ma dura un attimo. Le luci si abbassano nuovamente e nell’oscurità comincia il catartico massacro, ne vediamo solo le confuse immagini proiettate dalla videocamera che lo segue, fino a che non sono morti tutti e come in una fiaba lui può fuggire insieme alla ragazza sopravvissuta. Rinunciando per sempre a essere un dio.

    Foto di Andrea Avezzù

    Le false piste disseminate da Mundruczó, lo splatter o il musical, sono evaporate, si sono rivelate una funzionale sovrastruttura. Il territorio in cui si muove lo spettacolo è piuttosto quello del tragico nel senso più ampio, da Eschilo al revenge play, la tragedia di vendetta elisabettiana. Non è un caso forse che venga in mente White god, dove si compie un’analoga strage dei colpevoli. E anche lì, nel film del 2014, c’è di mezzo un dio bianco che si crede superiore agli altri esseri viventi. È in questa catartica violenza la risposta offerta da Hard to be a god? Questo vuol dire non essere più spettatori che guardano passivamente ciò che avviene davanti a loro? La tragedia, si sa, non offre risposte pronte per l’uso. Pone lo spettatore di fronte a una questione cui dovrà, da solo, trovare una propria risposta.

    Lo spettacolo di Mundruczó risale al 2010, si diceva. È l’anno dell’ascesa di Orbán e del suo partito Fidesz. Che ora vorrebbero depurare le istituzioni culturali da qualsiasi forma di opposizione. Anche dalla lunga tradizione di opposizione della cultura teatrale ungherese, che dalla denuncia lontana nel tempo della corruzione del declinante “comunismo morbido” arriva a quella del totalitarismo avanzante nell’Ungheria attuale. Forse quella posta da Mundruczó era anche la domanda che ponevano i fratelli Strugackij e infatti gli chiusero la bocca in fretta.

     

    © Gianni Manzella

     

    È difficile essere un dio di Arkadij e Boris Strugackij è stato pubblicato da Marcos y Marcos nel 2005, nella traduzione di Marco Pensante.

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