• Lo sguardo disturbante di Milo Rau

    I quattro corpi restano lì a lungo, davanti al nostro sguardo. Penzolanti l’uno accanto all’altro. Le mani che si erano strette fra loro in un ultimo gesto di solidarietà, prima di lasciarsi andare nel vuoto, ora giacciono inerti lungo i corpi che fino a un attimo prima ci avevano parlato di un microcosmo domestico, terribilmente normale, cioè uguale a tanti. E siamo di nuovo di fronte alla questione, chiamiamola così, che ci pone il teatro di Milo Rau. Presenza ormai familiare, il regista, agli spettatori di Romaeuropa dove è tornato (al teatro Argentina) con Familie. È il terzo atto di una trilogia che cerca un senso contemporaneo del tragico nelle pieghe anche brutali della cronaca. C’erano state le ragazzine sequestrate e seviziate da Marc Dutroux in Five easy pieces. Poi l’omicidio brutale quanto insensato di un giovane omosessuale da parte di un branco di disperati balordi, a Liegi, ne La reprise. Ora un incomprensibile suicidio di gruppo. Ed è ovviamente un salto emotivo forte rispetto alla leggerezza priva quasi di profondità dello spettacolo di Sasha Waltz con cui si era aperto il festival, la sera precedente, sorprendente per chi ha frequentato dall’inizio il teatro della coreografa di Korper e Gezeiten.

    Il regista svizzero, da tempo basato a Gent, nelle Fiandre orientali, questa volta si è ispirato a un episodio accaduto qualche anno fa in un paese del nord della Francia, nei pressi di Calais. Un’intera famiglia, padre madre e due figli, si erano suicidati insieme. Senza lasciare una spiegazione. Vita tranquilla. Nessuna preoccupazione economica. Nessun male oscuro. Abbiamo fatto uno sbaglio, c’era scritto nel laconico quanto enigmatico biglietto fatto ritrovare.

    Per ricostruire la vicenda, per metterla in atto secondo i principi del suo dogma (almeno due attori non professionisti, almeno un quarto delle prove fuori da uno spazio teatrale, non più del venti percento della durata preso da un testo preesistente e così via, ma questa volta le prescrizioni sembrano rese meno dogmatiche), Milo Rau ha scelto di far ricorso ai componenti di un’analoga famiglia, posto che è questa, la famiglia, la reale protagonista. Una coppia di attori in questo caso, e le due figlie adolescenti. O forse è stata la più grande delle ragazze, che in un momento di confusione aveva cominciato a leggere tutto quanto trovava sul tema del suicidio e si era imbattuta in questa storia. Così almeno racconta lei, la ragazza, seduta al tavolino da caffè posto al centro del proscenio. Di fronte alla telecamera che ne rimanda il volto sullo schermo che, come d’abitudine, sovrasta la scena.

    La scena questa volta è più costruita delle altre volte. È una vera e propria scenografia teatrale. Tre ambienti che si intravedono come in uno spaccato, dietro una grande vetrata, tocca alla videocamera manovrata da una mano invisibile inoltrarsi nelle sue zone d’ombra. Al centro il banco a isola della cucina, dove il padre si affaccenda ai fornelli – ha fatto davvero il cuoco prima di diventare un attore televisivo. Da un lato il bagno, dove la madre attacca alla parete le foto di famiglia; dall’altro la camera delle ragazze, che ancora non si sono staccate dal grosso orso di pezza. Quando siedono a tavola, potrebbe sembrare una cena come tante altre – non ho fame, non leggere mentre mangi, cose così – non fosse per un che di sospesa tensione o quel “dopo stanotte” che sfugge a qualcuno. Viene in mente l’ultima cena di Agamennone e Cassandra con Clitennestra e Egisto prima che inizi la mattanza nel precedente lavoro di Milo Rau visto a Roma, Orestes in Mosul. Ma siamo da tutt’altra parte.

    Come altre volte, il lavoro di Milo Rau è segmentato in una serie di quadri che disegnano le stazioni di una Passione. Se non che qui i materiali documentali disponibili sono davvero troppo pochi. All’inizio abbiamo visto i quattro interpreti andare a vedere i luoghi, interrogare i possibili testimoni, niente da fare. Tocca dunque immaginare come potrebbe essersi svolta quell’ultima notte. Guardare una volta ancora i filmini dell’infanzia, in montagna a sciare o a casa dei nonni. Mettere tutte le cose dentro scatoloni di cartone, come per un trasloco, chissà a che scopo. Forse per sottrarre a chi resta l’atto più straziante, come sa chi ci è passato, lo svuotamento della casa. E mentre la voce in loop di Leonard Cohen richiama un momento liturgico, nell’evocazione dei tanti modi di morire, quella della ragazzina introduce con un “mi piace” l’elenco delle cose per cui pur varrebbe la pena vivere.

    Per arrivare così a quel lungo finale da cui è partita la nostra cronaca. E non è superfluo sottolineare la dimensione temporale, la lunghezza di quell’esposizione dei corpi. Perché equivale a una dilatazione, a un cercato ingrandimento dell’immagine. Siamo di fronte, si diceva, alla questione che ci pone il teatro di Milo Rau. Che è una questione etica. Mette a disagio quel suo indugiare sui corpi offesi, qui come nei lavori precedenti, lasciando il dubbio che non sia un disagio sano. Che ci sia qualcosa di troppo nella sfida al voyeurismo dello spettatore. La disturbante morbosità con cui la videocamera si soffermava sul corpo della ragazzina che raccontava le violenze subite mentre era prigioniera nello scantinato di Marcinelle, in Five easy pieces, mentre l’uomo che la riprendeva le chiedeva di spogliarsi, quasi a ricostituire il rapporto di dipendenza con il sequestratore. L’interminabile, e insopportabile, durata del pestaggio ne La reprise (ci vuole tempo, l’abbiamo imparato, per uccidere un uomo a calci e pugni, ma è necessario subirlo tutto?). Dove tutto quello che avviene sulla scena viene proiettato ingrandito e dettagliato sullo schermo. Uno sguardo pornografico, vien da dire – parola un po’ forte e che rischia di essere fraintesa, lo so, ma non è che anche Milo Rau vada tanto per il sottile. Come già si notava per La reprise, proprio la tragedia insegna che possiamo farne a meno.

    (Un momento indelebile nella memoria emotiva dello spettatore di allora, ben oltre i “gesti citabili” di cui parlava Benjamin, resta quello in cui nell’Orestea di Peter Stein la Clitennestra di Edith Clever si strappava la camicia bianca e mostrava il seno nudo alla spada del figlio Oreste che stava per ucciderla. Questa è la tragedia).

    © Gianni Manzella

     

     

     

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