• Contro la compassione. Milo Rau e la violenza della storia

    Una discarica. Un cumulo di detriti che si allarga a coprire tutta la scena. Cose gettate, quasi indistinguibili ormai l’una dall’altra. È in questo informe paesaggio che Milo Rau ha scelto di allestire la sua nuova creazione, Compassion, in scena per due sere sul palcoscenico bolognese dell’Arena del sole all’interno del progetto Prospero. Da un lato, seduta a un banco attrezzato che resta poco visibile dietro quell’ammasso di immondizie, un’attrice ha cominciato a raccontare la sua storia. Si chiama Consolate Sipérius, ha ventisette anni, è belga ma originaria del Burundi. A quattro anni è sfuggita al massacro della sua famiglia. Erano hutu. Ma il racconto è divertito, condito da buffe espressioni del viso che lo schermo posto sul fondo restituisce ingigantito. Scherza sul suo nome, sulla curiosità che suscitava da bambina nel piccolo paese dov’era finita, in anni ancora non globalizzati. E intanto lo spettatore cerca di ritrovare memoria di quella lontana strage. Gli hutu e i tutsi, le due etnie a lungo in guerra. Migliaia di morti. Quando fu?

    Foto Daniel Seiffert

    I morti in realtà furono forse milioni, in quel lembo del Centro Africa che va dal Ruanda al Congo che allora si chiamava Zaire. Ma è solo un prologo, quello così introdotto dalla giovane Consolate, serve per calarsi nell’oggetto dichiarato dello spettacolo, che ha un nuovo inizio quando entra in scena una seconda attrice, una bravissima Ursina Lardi (svizzera ma berlinese d’adozione, la ricordiamo protagonista del Matrimonio di Maria Braun diretto a teatro da Ostermeier). Si muove con cautela per la scena, mentre un’altra vicenda biografica emerge dal suo racconto. Mostra una fotografia che ha fatto il giro dei media d’Europa, l’immagine del bambino che il mare ha riportato sulla spiaggia di Bodrum, da dove i suoi cercavano di arrivare sull’isola di Kos, in Grecia. Per proseguire da lì verso l’Africa, nel viaggio compiuto in compagnia del regista alla ricerca della documentazione su cui è costruito il testo dello spettacolo. Arrivando così a rievocare un periodo trascorso ai confini fra Congo e Ruanda, una ventina d’anni fa, con una delle tante organizzazioni non governative che si disputavano gli aiuti alle popolazioni.

    Un poco per volta quelle lontane vicende riemergono con la concretezza che solo il vissuto può dare, dove cioè il personale sta in primissimo piano, con tutte le sue ambiguità e le sue contraddizioni. Ma proprio per questo capace di mettere in luce l’errore di prospettiva con cui si guarda alla realtà. È quel che Milo Rau definisce “reenactment”, termine dalle vaghe ascendenze psicoanalitiche, potremmo tradurlo come ri-messa in atto. Il regista svizzero, non ancora quarantenne, ha fin dal principio scelto gli eventi sanguinosi che costellano la storia recente del mondo in cui viviamo come tema del suo lavoro, che è politico nel senso del fare teatro in maniera politica, come già insegnava Godard. L’uccisione dei coniugi Ceausescu, la strage di Utoya, al Ruanda aveva già dedicato un altro spettacolo… Potrebbe essere preso per un teatro di narrazione, dalla vocazione “civile” che porta a schierarsi a favore di questa o quella buona causa; è tutt’altro. E non solo per la scarsa correttezza di quel guardare indietro. C’è poco da salvare nel racconto dell’attrice che, in equilibrio fra verità documentaria e finzione, fa brillare come una mina quel sentimento, la compassione appunto, dietro cui si nasconde una rimozione. 

    La compassione a cui lei, l’attrice, si nega. Perché piangere qui, su questa scena, sarebbe la cosa peggiore da fare. C’è invece da guardare con attenzione da entomologo le immagini minute che un poco alla volta riemergono dalla memoria, senza abbassare lo sguardo neppure davanti alle più atroci. Che non sono soltanto quei milioni di poveri morti, le donne violentate prima di essere uccise orrendamente, i corpi dei bambini gettati a terra dall’impatto con i proiettili, non sono i numeri del genocidio. Letteralmente indicibile, a meno di non nascondersi appunto dietro la maschera della compassione. Non per caso è diversa la prospettiva in cui nella memoria appare l’ultimo giorno d’Africa, è la strada che le organizzazioni umanitarie evacuate compiono in senso contrario ai soldati in marcia, indifferenti al loro passaggio, è la distanza da cui da una collina vede quei soldati entrare nel campo e spingere le persone fuori dalle tende, donne e bambini soprattutto, è il campo in fiamme laggiù in basso sotto l’aereo che li riporta in Europa. E la musica di Richard Strauss, la Sinfonia delle Alpi, che nella memoria riemerge come una colonna sonora di quel massacro.

    Alla fine della storia, la morale è questa – dice l’attrice: che dipende tutto da chi ha le mitragliatrici. Un po’ come nel finale di Dogville, il film di Lars von Trier. E infatti ora gioca con un kalašnikov, ricordando senza imbarazzo il piacere che le dà il rumore delle armi, dopo tutto è figlia di un militare. Ma se si nega al pianto, in questo ritorno al Congo vent’anni dopo, ecco che quei volti e quelle storie rimosse riappaiono nel sogno, come un incubo atroce. Il sentimento di una colpa.

    E Consolate, non ha nulla da dire? Lei ha paura dei temporali e i fuochi d’artificio le provocano un attacco di panico perché per lei è il rumore delle mitragliatrici. Ma c’è un altro rumore che è tipico dell’Africa centrale, i bambini che ridono. Sono ovunque, a parte i quartieri dei bianchi. Forse non è un buon finale, ma è il suo. La bambina scampata al genocidio.

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