C’è la cima di un enorme croissant che svetta fra le nevi di un paesaggio innevato, in copertina sul programma di sala dello spettacolo che Christoph Marthaler ha intitolato Il vertice – e con termini analoghi suona nelle altre tre lingue parlate dagli attori: le sommet, the summit, der Gipfel. E infatti sembra un rifugio alpino, il luogo in cui il geniale artista svizzero ha riunito i sei protagonisti di questa nuova creazione al debutto al teatro Strehler (produzione del Piccolo teatro di Milano insieme a Théâtre Vidy-Lausanne e Maison de la culture de Seine-Saint-Denis).
Foto di Masiar Pasquali
Nell’iniziale penombra della scena si intravede lo spaccato di una baita tutta in legno e con il tetto a due falde. Circondata dal nero di una notte che non sarà mai interrotta. Molto realistico all’apparenza. Ma quando l’interno si illumina, ecco che dal suolo spunta la cima di una cresta rocciosa, proprio al centro. Un po’ surreale, e tuttavia a suo modo naturale, in quel mondo fittizio eppure concretissimo. E sulla parete di fondo si apre a comando lo sportello di un calapranzi, dove per un attimo compare il volto della Monna Lisa leonardesca. Non meno incongruo lì dov’è, quel montacarichi, giacché non si capisce da dove arrivi o dove porti, la casa ha un solo piano. Uno spazio reclusorio comunque, non si vedono altrimenti porte e finestre. Da lì infatti entrano anche gli attori. Vestono abiti “da montagna” di un tempo molto lontano, come si fossero messi in costume per l’occasione, scarponi e maglioni colorati gilet cappelli piumati. Vanno a sedersi lungo le pareti e restano in silenzio. E siamo di nuovo trasportati, noi affezionati spettatori, in uno di quei prodigiosi luoghi inventati, cari al regista svizzero. Prossimi tutti a una sorta di bunker, dove si trova raccolta una piccola comunità (qui la scena è firmata da Duri Bischoff).
Era uno smisurato armadio guardaroba o a piacere uno studio di registrazione radiofonica, in Der Stunde Null, dove i rappresentanti della classe dirigente della rinata Germania celebravano l’Ora Zero posta a fondamento di un nuovo inizio del paese. Era la trattoria scelta per mettere in scena La morte di Danton di Georg Büchner, un grande stanzone male illuminato con i tavoli sui due lati e il bancone sul fondo. La grande sala di Winch only, maestosa come una cattedrale ma confinante con un’aula del Palazzo di giustizia o forse anche con una stazione ferroviaria, stando al frastuono di un treno. La camera d’albergo di King Size, dove troneggiava l’enorme letto del titolo. Luoghi transitori e metamorfici come lo stanzone dalle pareti altissime di Riesenbutzbach, rivestito da carta da parati e ingombro di vecchi mobili come la bottega di un rigattiere galattico però anche un esterno su cui si affacciavano balconcini e lampade stradali fra cui si allineavano vetrine e porte col numero civico e si aprivano serrande di garage… Troppi per ricordarli tutti.
Intanto, come Marthaler ci ha abituato, all’inizio sembra non succedere nulla. Giusto il tempo di far conoscenza degli abitati del luogo, forse provvisori gli uni e l’altro, all’interno di quello spazio e tempo. A un segnale sonoro, come un allarme o un comando impartito da un invisibile demiurgo, parte un concertato di monosillabi che si rilanciano fra loro, quasi una partitura corale. One, Ja, Yes? Oui, What? Nein … Parlano lingue diverse, si è detto, vengono tutti dai paesi dell’arco alpino cui si è aggiunto uno scozzese. Quasi a prefigurare il germe di una possibile nuova Europa, quella vecchia fa un po’ fatica a stare insieme, si sa. In scena si presentano con i loro nomi (sono Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Federica Fracassi, Lukas Metzenbauer, Graham Valentine, tutti di una bravura mostruosa, inutile dirlo). E questo un po’ sorprende, cioè cambia l’orizzonte delle attese che sempre pone il teatro di Marthaler.
È meno facile, meno immediato definire l’identità di questa piccola comunità che non sa bene cosa fare lì dentro. Aprono e chiudono cassetti e scomparti che escono dalle pareti. Scoprono un microfono che comunica con un altoparlante montato sul tetto, ma per rivolgersi a chi? Cantano in coro Lassù sulle montagne e altri canti popolari adatti all’occasione. Uno si arrampica con chiodi e funi su una parete. Quando sul tetto si apre una finestra, restano immobili a guardare quel buio pezzetto di cielo. Più volte ascoltano immobili il passaggio a bassa quota di un aereo da combattimento, seguito da un’esplosione – e questa sì, è purtroppo l’Europa che si riarma contro non si sa quale nemico. Si siedono attorno al tavolo. Vieni, entra e coglimi, saggiami provami… comprimimi discioglimi tormentami, dice la ragazza che si è alzata in piedi sulla sedia, con le parole di Patrizia Valduga. Dio ha poca immaginazione, dice un’altra. Ha competenza, fa un lavoro accurato, ma mette il naso in troppe cosine. Cosa ha detto? Qu’est-ce qu’elle a dit? la domanda rimbalza dall’uno all’altra. Bisogna tradurre. Le lingue diverse sono un problema.
Un aiuto forse lo fornisce ancora il programma di sala. La sinossi in copertina dice: sulle tracce di un’Europa in cerca di sé stessa, Christoph Marthaler guida una spedizione di sei attrici e attori internazionali per un incontro al vertice che si rivelerà sorprendente. Il teatro come pattuglia mandata in avanscoperta alla ricerca della problematica identità europea? Ma è proprio così? Oppure è anche questo un tentativo di confondere le carte, come quel croissant che pare rimandi a un significato dolciario del titolo tedesco, Der Gipfel, ma non ha poi uno sviluppo sulla scena, se non all’interno del kit di sopravvivenza alimentare che arriva ai reclusi. E anche di incontri al vertice è inutile parlare. Non sono i rappresentanti di un qualsiasi potere, per esempio i leader dei paesi bellicosi, quei sei che ormai abbiamo imparato a conoscere e un poco ci assomigliano. Immagino che altrimenti Marthaler li avrebbe rinchiusi all’interno di un treno dai finestrini chiusi ermeticamente in viaggio verso chissà dove.
Per fortuna che c’è quel provvidenziale calapranzi a fornire sempre nuovi motivi di gioco, nel senso più teatrale della parola. Scendono degli asciugamani e allora si spogliano degli abiti da montagna e se li stringono intorno ai fianchi per trasformare la stanza in una sauna. Quand’è finita, si rivestono con gli abiti da sera trovati in una cassapanca, gli uomini in nero, le donne in lungo però a colori vivaci e con qualche spacco malizioso. Dal calapranzi arriva anche un giro di perle e lo specchio per truccarsi. Lo scatto a ripetizione di una macchina fotografica li immobilizza in pose da party. L’ultimo cambio d’abito sarà con divise monocrome, tutti uguali, del resto una voce aveva già avvertito che i sentieri delle valli intorno erano completamente chiusi, restate per favore dove state.
Christoph Marthaler o la dissoluzione del linguaggio, si era detto altre volte. Da ormai un trentennio il regista zurighese ha preso a bersaglio il linguaggio degli “specialisti”, trincerati nel bunker della propria casta o racchiusi a forza in uno spazio comune da cui non possono o non vogliono uscire. E l’indimenticabile, delirante Meine faire Dame in cui Marthaler faceva a pezzi il musical di Broadway come il film di George Cukor con Audrey Hepburn, con un allampanato professor Higgins perso nel suo tormentone linguistico, The rain in Spain says mainly in the plain, era apparso un po’ un requiem all’insensatezza delle parole. Qui quell’insensatezza prende la forma della sfida all’incomunicabilità messa alla berlina di Prisencolinensinainciusol, in un molleggiato remake ballato delle movenze di Adriano Celentano. Però, a sorpresa, da un raccoglitore spuntano fuori dei fogli e a turno cominciano a leggere. Sono parole di Louise Bourgeois, Dylan Thomas, Giuseppe Ungaretti, Patrizia Cavalli, Fernando Pessoa… come se la parola ritrovata della poesia potesse essa sola fare da antidoto allo sfarinarsi del linguaggio nella propaganda. Chissà perché mi viene in mente Fahrenheit 451.
Siamo alla fine. Il vertice ha freddo, dicono intendendo la cima montuosa che ha assistito silenziosa al loro indaffarato far niente. Bisogna coprirla, quella natura esposta alle intemperie. E infatti cominciano a stendervi sopra tante coperte. Un gesto di tenerezza, ancora una volta capace di sorprenderci.
© Gianni Manzella