• Marthaler touch. Sei note per un ritratto in corso d’opera

    Una grande sala dalle alte pareti tutte rivestite di un legno né chiaro né scuro, con un’ostinata aria di vecchio, l’aria delle cose fuori moda senza essere state ancora consumate dal tempo. Un bunker che è anche uno smisurato armadio guardaroba, pieno di cassetti e di ante e di scomparti che possono contenere di tutto, persino un pianoforte a coda. Forse uno studio di registrazione radiofonica. E chiusi lì dentro sette uomini anziani e formali, vestiti di scuro senza eleganza. Sette membri della classe dirigente, uomini politici o funzionari di stato, manager o intellettuali poco importa. Impegnati in un corso di formazione politica, un training fisico e gestuale sull’arte della retorica. L’arte di servire, come suona il sottotitolo del geniale Stunde Null di Christoph Marthaler.

    È diventato presto un classico lo spettacolo realizzato nel 1995 dal regista zurighese per lo Schauspielhaus di Amburgo. E la data in questo caso è importante, perché coincide con l’anniversario della fine della guerra, celebrato con enfasi nella Germania finalmente riunificata. Una fine che è anche un nuovo inizio, il 1945. Quell’Ora Zero, Stunde Null appunto, che già nelle due parole indica una volontà di ricominciare, cancellando con un tratto la storia precedente. Cinquant’anni di dimenticanza, incorniciati dalle parole vuote dei discorsi commemorativi. Quei discorsi di politici e scrittori del dopoguerra e di oggi che Marthaler ha fatto a pezzi, coniugando lo sberleffo dadaista con l’impotente sdegno morale di un Karl Kraus, per ricomporli poi in bocca al suo campione di classe dirigente.

    Una classe morta, proprio nel senso dell’indimenticabile lavoro di Tadeusz Kantor. Con la stessa terribile comicità di quello. Un gruppo di uomini in là con gli anni, costretti all’infinita ripetizione di parole senza senso. In luogo della ghignante donna delle pulizie che là spingeva fuori di scena con la sua scopa la scolaresca dimessa e sgradevole, qui c’è un vecchio inserviente che va e viene con i microfoni e si diverte molto a ridere in faccia al disadattamento di quegli uomini. Degno collaboratore della maitresse del luogo, la signora Stunde Null appunto, un po’ cameriera e un po’ istitutrice, col grembiulino bianco portato sull’abito di lamé, così incongruo sul suo corpo piccolo e rinsecchito. È lei con un fischietto a scandire i tempi della giornata di lavoro, alternando con lo stesso tono autoritario il rituale stimolante del tè agli esercizi verbali da fare ai microfoni che spuntano dalle pareti, tutti a ripetere “Das ist gut”. A premiarli o a punirli con uno schiaffo. O a tener banco con una sfibrante lezione sul concetto di grotta che li abbatte uno dopo l’altro, facendoli precipitare a terra dalle sedie.

    Non c’è dubbio infatti sul carattere coercitivo di questa scuola. Lo dice anche lo specchio che pende obliquo al di sopra della porta di ingresso, sul fondo della sala, tanto simile a quelli dei posti di controllo lungo la frontiera che divideva un tempo Berlino. Non si sfugge allo sguardo indagatore che ti spia anche dall’alto. Non bisogna farsi ingannare dalle allegre marcette improvvisate da un pianista in frac che forse è uno di loro, più collaborazionista. Anche la musica, anche “La vie en rose” che lei comincia a cantare come fosse su un palcoscenico, fanno parte di quella pedagogia, oltre che della cultura del regista.

    Eccoli dunque in fila per cantare a bocca chiusa il ritornello di una canzone patriottica. E poi via. A spogliarsi degli abiti scuri per mettersi tute e calzoncini corti più adatti a quella ginnastica politica. Per provare il taglio di un nastro di inaugurazione, saltellando come atleti che entrano in pista. Hop, hop, hop. Si esercitano a sfilare su un tappeto rosso. Mimano il saluto alla folla e la stretta di mano per la foto ricordo. Ma così come sono conciati, con quelle pance enormi o quelle gambe troppo sottili che spuntano dagli indumenti ginnici, tutto diventa più ridicolo, più patetico. Non stupisce che anche i comportamenti ne siano contagiati, o forse è solo che non ci sono più maschere fra i loro comportamenti e chi li guarda. Si mettono le dita nel naso. Si guardano come bambini dentro i calzoncini. Raccontano barzellette di sesso. Si abbandonano a violenze reciproche ma senza smettere di cantare in coro.

    Quando sono pronti, rivestono gli abiti scuri e si avviano a turno ai microfoni per tenere il proprio discorso commemorativo. C’è chi lo urla, chi lo legge dal foglietto tirato fuori dalla tasca della giacca, chi usa un tono sommesso e persuasivo. Ma la diversità dei corpi e dei gesti è contraddetta dalle parole che suonano tutte uguali, tutte ugualmente false. Appelli alle giovani generazioni. Sunti consolatori della storia del popolo tedesco. Premesse che esauriscono le cose da dire. Frasi fatte che non vogliono dire nulla. Retorica sentimentale. Che Marthaler costringe ad ascoltare con perfida sfida allo spettatore più impaziente, prima di liberarlo al divertimento di un finale  di travolgente comicità.

    La giornata di scuola è terminata. I vecchi allievi arrivano con brande pieghevoli e materassi. Tirano fuori dai cassetti coperte e vasi da notte. Aprono i loro lettini e indossano il pigiama. Ma quei letti non ne vogliono sapere di stare su, crollano a terra, si rovesciano, si richiudono sui loro corpi, in un crescendo di coreografiche gag che potrebbero stare in uno spettacolo di Pina Bausch. E quando bene o male sono sistemati, arriva la signora Ora Zero a rimboccare le coperte col suo pedagogico tormentone. Libertà. Sicurezza. Europa. Dormire davvero non è possibile, se non del sonno della fiaba che addormenta insieme alla bella principessa l’intero paese. Ma Marthaler è troppo intelligente per offrire una morale confezionata. Ci offre il divertimento del grande teatro e, per chi lo voglia, una lezione di cosa voglia dire teatro politico. Sarebbe piaciuto al nostro Gramsci.

    La struttura di Die Spezialisten non è molto diversa da Stunde Null. Anche qui è in gioco una classe morta di uomini ormai anziani, vestiti in abiti formali, racchiusi a forza in uno spazio comune da cui non possono o non vogliono uscire, come in un film di Bunuel. E c’è anche, come nell’altro lavoro, una maitresse implacabile che qui ha assunto il ruolo di hostess in divisa, armata di un telecomando con cui bloccare l’azione di quegli uomini. Tutti “specialisti”, tutti dotati di qualche conoscenza speciale che però non sembra servirgli molto. Costretti anzi a ripetere all’infinito le stesse parole senza più senso. In viaggio chissà per dove, quel che conta è viaggiare ancora in prima classe.

    La scena disegnata da Anna Viebrock, fondamentale sempre nel lavoro del regista zurighese, ha inventato un immaginario mezzo di trasporto, forse una nave spaziale in moto lungo un’orbita senza sosta. Una grande sala bianca, vuota, con una fila di oblò da un lato e di strapuntini dall’altra. Che però si apre sul fondo nell’oscurità di un salone borghese, tutto boiserie, mentre davanti la buca dell’orchestra ospita un’inquietante pianista (o sarà un pianista, sotto i capelli cotonati?) che nei momenti di pausa resta impalata in faccia al pubblico.

    All’inizio stanno tutti eretti in mezzo alla scena, perfettamente immobili. Cantano, in coro, senza un gesto. Agli uomini vestiti di scuro si sono aggiunte alcune donne, più giovani, con occhiali e abiti blu da segretarie che possono aprirsi in uno spacco vertiginoso. Il canto intona un sommesso Kyrie eleison che si trasforma senza soluzione di continuità in un motivetto allegro, un boogie ammiccante. E questo refrain tornerà più volte, nel corso delle due ore e più dello spettacolo, a scandirne la struttura ripetitiva, fatta di pieni e di vuoti, di rallentamenti e di improvvise accelerazioni. “Un tè danzante per la sopravvivenza” dice il sottotitolo di Die Spezialisten, con una struttura da musical che ricorda da vicino il “tocco Bausch”, resa implacabile dalla permanenza degli interpreti sulla scena.

    Si toccano e si prendono a schiaffi, prima di buttarsi in un tango. Si tirano calci. Fanno un po’ di sesso, a terra, sperimentando acrobatici accoppiamenti. Dialogano di organizzazione finanziaria, di turni di lavoro, dei metodi usati per stare bene. “Sto bene, sto sempre meglio” affermano a turno, tristissimi. È che i gesti si sono allontanati dalle parole. Come le istruzioni di salvataggio recitate al decollo degli aerei, trasformate in un balletto di gesti. Si è creata una frattura incolmabile, fra il loro aspetto perbene e i loro comportamenti infantilmente sfrenati. Metastasi di personaggi cechoviani che un rumore improvviso fa piegare dal dolore.

    Che paese è questo? chiede la giovane Viola che vi ha fatto naufragio: e si sa quanto una tempesta possa essere la soglia che apre a un diverso grado di conoscenza. L’Illiria favolistica della Dodicesima notte si è trasformata in una sorta di vascello ebbro nella bellissima messinscena che Christoph Marthaler ha intitolato Was ihr wollt, privilegiando la seconda parte del titolo originale che meglio ne esprime l’intrinseca ambiguità. L’anarchico e talentoso regista svizzero ritorna con uno spettacolo che ne conferma la maestria ma anche più facilmente condivisibile, partendo dal familiare mondo di Shakespeare, rispetto agli altri lavori calati nelle pieghe della storia tedesca.

    Marthaler viene da studi musicali, ha lavorato a lungo come musicista teatrale prima di debuttare nella regia, e la musica resta un elemento primario nella drammaturgia dei suoi spettacoli. Was ihr wollt inizia con un lungo canto che sembra riprodursi senza fine, quasi in sordina ma ossessivamente ripetitivo, che dilata il desiderio evocato dalla prima battuta nella commedia, se la musica è il cibo dell’amore. Una nenia che sembra cullare l’immobilità degli interpreti, seduti senza un ordine apparente o piuttosto ciascuno per suo conto all’interno dello spazio in cui sono tutti rinchiusi. A più riprese un invisibile moto ondulatorio li fa crollare a terra, ma subito si ricompongono e riprendono i loro posti.

    Con l’ausilio abituale di Anna Viebrock, Marthaler ha ricreato l’immagine della sala delle feste di una vecchia nave da crociera. Uno spazio reclusorio, come lo studio di registrazione radiofonica in cui erano confinati i membri della classe dirigente di Stunde Null, come il vascello da odissea spaziale di Die Spezialisten. Ma anche uno spazio allusivamente teatrale che riproduce, con la sua balconata superiore a ferro di cavallo, il profilo della sala dello Schauspielhaus di Zurigo, il teatro di cui è diventato direttore (e dunque con un effetto di rispecchiamento per il suo pubblico che riporta a celebri spettacoli di Luca Ronconi).

    In questo spazio che non lascia scampo, che non ha vie di fuga, in movimento verso un approdo sconosciuto, va in scena l’attesa. È questo infatti il tema dello spettacolo. Un’attesa alcolica, riempita dalle molte bottiglie che stanno in mostra sui tavolini o nascoste in più personali ripostigli. Sospesa fra la veglia e il sonno. Essere o non essere svegli, questo è il problema. E in questa luce di crepuscolo, tutto diventa ancora più ambiguo, privo di certezza. Non solo la protagonista che si è finta un ragazzo per entrare al servizio dell’uomo che ama, a sua volta innamorato di una donna che respinge lui e tutti quanti, nascosta dietro un velo luttuoso.

    Recitano. Che altro si può fare, se no? Recitano la commedia della seduzione e degli amori sbagliati, dell’ambizione e della vanità. La vita insomma. O meglio la danzano, continuando senza sosta a nutrirla di canzoni, musiche antiche e variazioni rockeggianti che si fanno da sé, con pochi strumenti e voci ben temperate. Commedia dell’identità naturalmente, il tema del travestimento è lì a dirlo. E naturalmente commedia delle parole, che pure hanno qualcosa a che fare col travestimento, e lo sa bene il fool che veste il kilt e macina giochi verbali e paradossi. Ecco allora la bella scontrosa cader vittima del messaggero d’amore che nasconde il proprio corpo femminile, per nulla turbato dalle esili gambe nude di lei. Ecco il maggiordomo burlato nella sua smania di ascesa sociale. Ecco l’aristocratico scroccone che impegna il suo corpo smisurato in ripetute gag e continue bevute.

    Ma la clownerie, il ricorso alla comicità sapientemente usato dal teatro di Marthaler, non nasconde la profonda melanconia del mondo qui evocato, che anzi è quella una delle parole che più di frequente ritornano. E un lancinante segnale d’allarme pone termine ai giochi. Il gelido finale blocca tutti gli interpreti sulle sedie, schierate in fila. Condannati a un unico movimento ripetitivo, recitano in playback le parole che qualcun altro gli ha messo in bocca. La commedia è finita, buona notte augura il nascosto demiurgo.

    La rivoluzione non è un pranzo di gala, ammoniva un maestro di altri tempi tenuto in conto di sapiente. Christoph Marthaler sceglie una modesta trattoria per mettere in scena La morte di Danton di Georg Büchner allo Schauspielhaus di Zurigo, congedo e fuga dell’anarchico regista dalla direzione del teatro municipale che l’aveva prima cacciato e poi richiamato. Un grande stanzone male illuminato, con tavoli e separé sui due lati e il bancone sul fondo dove si apre un altro vano e insegne pubblicitarie alle pareti grigie, fra cui un premonitore “Napoleon”. Un’aria ostinata di vecchio, un’apparenza di triste squallore di periferia per chi ha gli occhi assuefatti al luccicante consumismo postmoderno, come potevano apparire certi interni d’oltrecortina per chi veniva dai lussi dell’occidente.

    Lo spazio scenico è fondamentale per il regista svizzero. È il luogo dell’azione a dare per primo il clima del dramma. E non se ne scappa. Come lo Shakespeare di Was ihr wollt, anche questo Dantons Tod inizia con un lungo canto corale intonato dagli interpreti seduti immobili ai loro posti. A lungo non succede nulla. Se non quel canto sommesso e modulato. Un inserviente fa le pulizie fra i tavoli, porta via le bottiglie vuote raccolte in un angolo, spazza i rifiuti giù dal palco. Come per darci il tempo, a noi ospiti casuali e appena entrati in quel luogo, di abituarci alla luce e alle facce dei frequentatori abituali. Di trovare il nostro posto, senza disturbare.

    Il coro continua in sottofondo anche quando due cominciano a parlarsi, seduti a un tavolino, quasi a creare una colonna sonora che rende esplicito l’artificio. Giacché recitano, è chiaro. Rievocano a loro uso, e nostro, quella lontana vicenda. Con partecipazione emotiva, anche, quando occorre, ma senza far mai dimenticare che si tratta di un gioco scenico, di una rappresentazione appunto. Come fosse una “persecuzione e morte di Georges Danton raccontata dagli avventori della locanda di …”, alla stregua del Marat/Sade di Peter Weiss – senza però il ricatto sentimentale della prigionia manicomiale, della sofferenza reclusoria, senza l’alibi della rivolta. Col risultato così di mettere in luce quel che Brecht avrebbe chiamato lo stile della lotta dei contendenti.

    In gioco c’è qualcosa di più dello scontro fra due concezioni della vita, oltre che della rivoluzione, il conflitto fra la virtù e il vizio, fra la purezza rivoluzionaria e i desideri umani, riassunto simbolicamente nelle figure di Robespierre e Danton. Sono i corpi degli interpreti a rivelarlo per primi. Danton (Robert Hunger-Bühler) entra ballando con la sigaretta fra le labbra, capelli disordinati e barba non fatta, un vecchio sciupafemmine alla Serge Gainsbourg, sarà la suggestione della voce di Brigitte Bardot, musa segreta dello spettacolo che canta “une histoire de plage” e ammonisce “ça pourrait changer”. Ancora più sorprendente per lontananza dal fisico del ruolo, cioè dalla convenzione iconografica, è un Robespierre (Josef Ostendorf, icona invece del teatro di Marthaler) di imponente fisicità, incompatibile con l’immagine ascetica del fanatico rivoluzionario, altro che poliziotto del cielo. Non c’è traccia in lui del furore ideologico di Saint Just che traccia l’epigrafe spietata del dramma, cosa contano qualche centinaia di morti davanti alla storia. Semmai una sorta di dolorosa accettazione del suo ruolo. E ci vuole la sua santa pazienza per resistere impassibile alle seduzioni della ragazza che gli stringe le gambe nude al collo cantando “j’ai deux amours”.

    Ma qui siamo già a quel che potremmo chiamare il “Marthaler touch”, che vuol dire il suo riconoscibile stile ma pure la sua capacità di divertire, di non annoiare mai. Musicista di formazione, costruisce una magistrale drammaturgia musicale che forma una sorta di loop con il testo, un continuo corto circuito. Ecco un repertorio di canzoni che rimandano all’immaginario della rivoluzione, dall’Internazionale a una Marsigliese che diventa “El pueblo unido”. Ma che soprattutto si fanno a loro volta suscitatrici di azioni, di gag irresistibili come il balletto delle quattro girls che mimano “allons enfants de la patrie” alla maniera di Pina Bausch, all’interno di un contenitore scenico presto svuotato di ogni arredo e persino delle colonne portanti così da mutarsi in Kontakthof, in un luogo di contatti. Tirando il dramma fino ai confini del varietà, unica catarsi possibile laddove il sogno rivoluzionario è fallito e i sentimenti hanno fatto naufragio.

    La compagnia aerea Swissair fallisce, il teatro di Zurigo lo mette alla porta, e lui che fa? Ci costruisce sopra uno spettacolo. Semplicemente geniale. Cacciato dallo Schauspielhaus e poi richiamato a furor di popolo (gli zurighesi sono scesi realmente per strada per lui), prima di andarsene definitivamente verso altre avventure Cristoph Marthaler si è preso il gusto di mettere alla berlina il consiglio di amministrazione del teatro, riprodotto fedelmente (mi dice un’amica di lì) nel gruppo di burocrati e maneggioni, manager e finanzieri creativi, esperti di marketing e di pubblicità che accompagnano verbosi e impotenti il naufragio economico della Swissair, uno dei simboli della precisione di cui la Svizzera andava fiera.

    Ovviamente Groundings non è soltanto questo, non è solo una rivincita dell’artista davanti all’ottusità del potere. È prima di tutto la storia di un lungo naufragio, insieme politico e sociale ma soprattutto umano, come già ci annuncia la polisemia del titolo: dice “atterraggi“ ma in quel prender terra lascia intendere anche l’emergenza di qualcosa di forzato, il preannuncio di un disastro (e il sottotitolo recita “una variante della speranza“). Qui la lingua, cioè il modo di esprimersi, dice tutto. Come per la classe dirigente di Stunde Null, come per gli Spezialisten che davano il titolo a un altro suo lavoro, Marthaler si è divertito a fare a pezzi e a ricomporre il linguaggio dei fautori della “new economy” globalizzata, con la loro “filosofia d‘impresa” da bazar. Dove alla fin fine è sempre questione di come far soldi.

    È ancora, Groundings, l’omaggio allo straordinario gruppo di interpreti che lo spettatore ha imparato a riconoscere, nei corpi se non nei nomi, passando da uno spettacolo all’altro dell’artefice zurighese. Eccoli schierati come ballerine di fila, tutti vestiti in maniera formale e con una grossa valigia al seguito, piuttosto anziani, qualcuno più azzimato, nello spazio scenico disegnato come d’abitudine da Anna Viebrock, un non-luogo anonimo e reclusorio, simile a una sala d’attesa d’aeroporto. C’è anche una donna fra loro, che passa gradualmente dal ruolo di hostess impacciata a quello di supermanager decisionista per trasformarsi alla fine in una sorta di guru o di fatina del gruppo, avviato a una regressione sentimentale verso le abbandonate illusioni giovanili sulle note di “Mr Tambourin man”. Raccontano l’ascesa e caduta della compagnia aerea svizzera. Fanno e disfanno progetti. Ondeggiano in esercizi di respirazione. Provano un sesso che non desiderano. Ogni tanto qualcuno viene accomiatato con espressioni di sentita partecipazione e defenestrato per mezzo di una poltrona sparata contro una parete. Quelli che restano si raccolgono a guardare attorno al buco creato nel muro, cantando in coro una melensa canzoncina del folclore elvetico.

    È l’inconfondibile Marthaler touch, la sua capacità di divertire mescolando gag e afflato corale. Così come volo aereo e teatro si confondono nel progetto di ristrutturazione enunciato, che gli aerei e gli attori è più conveniente affittarli che farli recitare o volare, magari istituendo un’unica regia da collocare per maggiore economia in qualche remoto paesino. Delirante? È il mercato, bellezza, direbbe qualcuno. Il teatro non è fatto per guadagnare dei soldi, ci dice invece Marthaler. Il teatro è fatto per cambiare lo sguardo che posiamo sul mondo.

    Torna in mente la cara Cathy Berberian, capace di mescolare vocalmente Monteverdi ai Beatles, di fronte allo strepitoso Winch only di Christoph Marthaler, prodotto dal Kunsten di Bruxelles. Metti i Kinks al posto dei quattro di Liverpool, e ritroviamo la stessa escursione sonora. Marthaler è artista di formazione musicale, come si sa, ma di gusto per nulla accademico. Invitato a dare veste teatrale alla barocca Incoronazione di Poppea, il geniale regista svizzero si appropria del progetto e lo ribalta in una creazione del tutto originale, costruendo una magistrale drammaturgia musicale che attraversa anche Bach e Schubert, Massenet e Schoenberg, in un continuo corto circuito con un testo altrettanto contaminato. E con l’ausilio di sei cantanti che si trasformano anche in straordinari attori nelle sue mani.

    Il punto di partenza, quel che dà il clima al dramma, come d’abitudine, è lo spazio scenico costruito su due livelli da Anna Viebrock, una grande sala con camino al centro e soppalco mansardato in cui si sale da una scala laterale, maestosa come una cattedrale. Abbagliati dall’apparente realismo dell’ambientazione, ci si mette un po’ a scoprire che quel luogo chiuso è più ambiguo e indefinito di quanto si voglia far credere. Uno spazio che ne racchiude altri, o che si apre su una realtà parallela, come in certi quadri surrealisti. Confinante tramite una monumentale porta imbottita con un’aula del Palazzo di Giustizia, da cui vengono prelevati i vecchi mobili che un po’ alla volta si stringono sulla scena. Ma anche, c’è da supporre, con una stazione ferroviaria o linea metropolitana, da cui penetra ogni tanto il frastuono di un treno. E in alto vi gira una giostra dotata di ganci che richiamano il titolo un po’ misterioso, “soltanto un argano” o quel che vuol dire.

    Come sempre avviene, nel lavoro di Marthaler, all’inizio sembra non succedere nulla. Giusto il tempo di entrare in quel mondo fittizio eppure concretissimo, di abituarci alla sua luce e alle facce dei suoi più abituali frequentatori. Gli interpreti sono già lì tutti, impegnati in azioni insignificanti. Due ballerine in tutù fanno esercizi alla ringhiera. Una donna meno giovane sembra interessata soprattutto alle bottiglie nascoste in una nicchia. Sotto, in un angolo, un pianista suona qualche refrain. Due uomini formali ma poco eleganti si producono in cadute ripetute e rimangono rovesciati a terra come ingombranti insetti.

    È un nucleo familiare, lo si capisce ben presto, quello rinchiuso in questo “luogo di contatti” mascherato da interno borghese. Anche se i ruoli appaiono fluidi, instabili, contano di più le situazioni incarnate dai sei interpreti, non a caso in scena con il proprio nome e non con quello fittizio di un personaggio. Maman strizzata in un tailleur leopardato e borsetta sempre saldamente in mano come una regina d’Inghilterra. Le figlie in minigonna e stivali bianchi o coi calzini corti indossati sopra orribili calze a rete. Gli uomini, padre e figlio, sempre sull’orlo di una crisi nervosa. Un microcosmo limitato, in confronto ai grandi gruppi corali rappresentati nei precedenti lavori del regista. E tuttavia campione sociologico estratto dallo stesso strato sociale. Come la classe dirigente di Stunde Null, come quegli altri Spezialisten, come il gruppo di burocrati e maneggioni, manager ed esperti di marketing che in Groundings accompagnavano il naufragio economico della Swissair. Uomini ingrigiti dalla vita, verbosi e impotenti. Strumenti e vittime di comportamenti autoritari. In preda a una regressione sentimentale che veste le illusioni giovanili con le parole delle canzoni, come qui una collezione di 45 giri di Mireille Matthieu.

    Una famiglia non tanto raccomandabile, dove ciascuno nasconde con cura i propri segreti, e intrighi e litigi la fanno da padroni. Gli uomini si infilano nel buco nero del camino o lamentano che le ragazze tornano tardi a casa. Le ragazze vengono chiamate a testimoniare o si trasformano in giudici indossando per gioco pompose toghe. La madre compie periodici pellegrinaggi alla salvifica riserva alcolica. Il padre parla dei molti figli con le parole di un racconto di Kafka. Prorompono in ordini: non cantare, non saltare. Si divertono a citare Michaux e Maeterlinck o semplicemente “Ne me quitte pas”. Soprattutto cantano, con un piacere quasi infantile e grande divertimento nostro, mescolando le lingue e le epoche, accompagnati soltanto dal pianoforte o facendosi da soli l’orchestra. Un Lied sottovoce. Un pezzo che resta un incompiuto tormentone, mentre cercano di riprendersi in video. Un’aria di Monteverdi che riporta all’originario motivo ispiratore. Senza tradire il “Marthaler touch”, il riconoscibile stile del regista, la sua capacità cambiare il nostro sguardo sulle cose.

     

     

    Post Tagged with