• La crisi di nervi di un cambio d’epoca. Peter Stein torna a Čechov all’insegna del vaudeville

    Ho capito che è necessario fare un testo di Čechov ogni quattro o cinque anni, per ragioni di salute, ci diceva Peter Stein accogliendoci nella sua casa berlinese affacciata sulla Kurfürstendamm, a due passi dalla nuova Schaubühne dove andava in scena il suo Giardino dei ciliegi. Nel grande salone tutto bianco e vuoto campeggiava in solitudine un pianoforte a coda, unico rumore il sommesso squillo di un telefono. Čechov è una prova per l’attore, per vedere se può fare il suo mestiere, spiegava Stein. A volte sembra che il suo teatro sia come una sfida all’attore, costretto a lavorare su diversi sentimenti paralleli. 

    Era l’inizio dell’estate 1989. Di lì a pochi mesi il muro di Berlino sarebbe crollato sotto una spinta che già si poteva percepire, non ci volevano antenne particolarmente sensibili. Bastava attraversare quell’innaturale confine, quando ci si lasciava alle spalle l’insegna circolare del Berliner Ensemble e si volgeva lo sguardo alla stella della Mercedes. Era, il 1989, anche l’anno in cui Christoph Hein pubblicava Il suonatore di tango, forse il libro che meglio di altri era capace di raccontare dall’interno l’ordinata normalità della Germania “democratica” (da noi sarebbe apparso poco tempo dopo, grazie alla casa editrice e/o). E anche lo spettacolo, quel Giardino dei ciliegi, sembrava allora prefigurare il momento in cui una crisi stava per arrivare al punto di rottura. Tutti i personaggi lo sentivano, senza sapere ancora di cosa si trattasse. E resta nella memoria dello spettatore di allora l’immagine finale del vecchio servitore Firs rimasto solo nella casa destinata a essere abbattuta. Tutti se ne sono andati. Si sono scordati di lui. Da qualche parte, lontano, si sentiva il suono di una corda di violino che si spezzava. 

     

    Foto di Tommaso Le Pera

    Per questo nuovo ritorno a Čechov, Peter Stein si è rivolto a tre atti unici giovanili, scritti fra il 1884 e il 1891 all’insegna del vaudeville, che ha riunito sotto il titolo Crisi di nervi (ora in tournée, lo si è visto all’Arena del Sole di Bologna). “I personaggi di volta in volta si fanno prendere da crisi di nervi, si ammalano, sono preda di attacchi isterici o litigano in continuazione fra loro”, scrive Stein nelle note di regia e non c’è nulla da aggiungere a questa sinossi. Già Mejerchol’d aveva intitolato Trentatré svenimenti, a metà degli anni Trenta del secolo scorso, la rilettura di tre atti unici di Čechov (fra cui L’orso e La domanda di matrimonio che ritroviamo qui) destinata a essere l’ultimo spettacolo prima del suo assassinio. Per dire che un malessere sfiora la patologia Dietro o sotto la maschera della farsa, cioè della leggerezza assurta a principio inderogabile, si rivela un volto meno tranquillizzante. Fantasia teatrale sul tema dell’infelicità, potrebbe essere il sottotitolo di questa Crisi di nervi. Del resto come si sa, niente è più comico dell’infelicità.

    Prendiamo L’orso, “scherzo in un atto” lo definisce l’autore. Che è un termine musicale, in qualche modo. E infatti musicale è la struttura drammaturgica, un terzetto per archi la si potrebbe dire. Con un suo tema e relative variazioni a modificare il timbro o il ritmo della linea melodica. Dominata dal nero che avvolge la scena, a tradurre visivamente il tono luttuoso che vuole darsi la protagonista. Vestita di nero naturalmente e seduta a un tavolino dominato dall’immagine incorniciata del marito defunto. Non proprio un modello di virtù, a dar retta a come lei lo dipinge. La tradiva, la lasciava sola per settimane. Lei invece sempre fedele, quando l’uomo era in vita e anche ora che non c’è più. Quando irrompe l’uomo, l’orso del titolo, giacca di fustagno stivali e berretto calcato in testa, a chiedere il pagamento di due cambiali lasciate dal suo defunto consorte, i toni salgono rapidamente. Dopodomani, risponde lei. Accampando il suo stato d’animo. Nel terzetto è lei il primo violino, Maddalena Crippa. Rianimata dall’imprevisto, diventa battagliera. Lo sfida a duello, tira fuori un paio di pistole e lui crolla: questa sì che è una donna! E insomma la farsa vira in commedia con un matrimonio all’orizzonte.

     

    Tolto di mezzo il pretesto del lutto, La domanda di matrimonio è quasi una variazione sul medesimo tema, giustificata dalla più giovane età dei due protagonisti. Lui è venuto per chiedere la mano di lei al padre, che subito lo abbraccia e lo bacia. Sono buoni vicini. Angelo mio, l’ho sempre desiderato. Che Dio vi benedica eccetera. Ma quando arriva lei ancora ignara, lui non sa come cominciare. C’è anche uno squilibrio da colmare, lui è venuto vestito in frac che indosso fa un poco Felice Sciosciammocca; lei era in cucina in grembiule a sgranare i piselli. La prende alla lontana, dalla stima della povera zia per la famiglia di lei. Siedono accanto sul divano che sta contro la parete sul fondo. Lui è a disagio, si contorce in maniera innaturale. Quando nel preambolo familiare accenna al possesso di un lembo di terreno, anche qui i toni si alzano. Non per il valore di un prato, di cui non importa nulla, ma per una questione di principio. Partono insulti e ci vediamo in tribunale. Lui ha una specie di collasso, se ne va barcollando. Lei solo in quel momento impara che era venuto a chiedere la sua mano e allora tocca a lei avere un attacco isterico. La farsa scivola verso la comicità slapstick. Presto, presto. Fatelo tornare! E subito però ricominciano a bisticciare su chi possieda il cane più bello. Ti ho sposato per allegria? Magari. E vissero insieme infelici e scontenti, c’è piuttosto da pronosticare.

    L’infelicità domestica è del resto il tema anche de I danni del tabacco, il monologo inserito a fare da tratto d’unione fra i due più corposi “scherzi”. Qui il protagonista, Gianluigi Fogacci, è il marito della proprietaria di un pensionato femminile, in una cittadina di provincia. Dovrebbe tenere una conferenza divulgativa, pur non avendo titoli accademici. Tabak sta scritto in caratteri cirillici sulla grande lavagna appesa alle sue spalle, per chiarire il tema. Ma appena comincia con la composizione chimica della nicotina ha un attacco d’asma e del tabacco chi si ricorda più, sono le sue sventure coniugali a tener banco.

    Non mi interessa rincorrere la modernità, dice oggi Peter Stein. E al termine delle due ore dello spettacolo, un poco abbiamo capito cosa intenda il regista tedesco. Vuol dire continuare a pensare che al centro del teatro sta il lavoro degli attori (oltre a quelli citati, sono l’orso Alessandro Sampaoli; i litigiosi promessi sposi Alessandro Averone e Emilia Scatigno, e Sergio Basile, unico ad apparire in due ruoli). E ci piace pensare che anche da lì venga la scelta di non ricorrere, se non abbiamo visto male, ai microfoni appiccicati sul viso cui sembrano condannati gli attori in tanta parte del teatro contemporaneo. 

     

    © Gianni Manzella

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