• Storie dell’abbandono, fra Poulenc e Mascagni. La voix humaine e Cavalleria rusticana

    Sta sospeso fra il bianco e il nero il dittico che Emma Dante ha realizzato al Teatro Comunale di Bologna, sotto la direzione musicale del giovane e ormai affermato Michele Mariotti. Drammi entrambi di donne, La voix humaine e Cavalleria rusticana, quasi speculari nel calarsi nei meandri della passione semplice quanto lontani musicalmente. Un monologo pieno di silenzi di fronte a un’opera corale. Ma con singolari (fino a un certo punto) affinità anche tematiche, nel porre al centro dell’azione l’abbandono di una donna. Entrambe le protagoniste si sono date a un uomo che le ha tradite e di questo si sentono colpevoli.

    Foto di Rocco Casaluci

    Un luogo tutto bianco, due letti affiancati a chiarire la dimensione ospedaliera dell’ambientazione, accoglie la “tragédie lyrique” che Francis Poulenc trasse negli anni cinquanta del secolo scorso dal dramma di Cocteau. Contraddicendo le indicazioni di regia dell’autore, e ci mancherebbe farne motivo di scandalo, la regista siciliana sposta l’azione in uno spazio asettico, dove infatti si muovono con passo coreografico il medico di turno e una coppia di indaffarate infermiere ma anche le apparizioni che danno concretezza visiva ai fantasmi della psiche della protagonista. Una coppia che attraversa la scena allacciata in un ballo, chissà se memoria di un passato ancora felice o visione di un futuro anteriore che ritorna come un incubo ossessivo.

    Lei, la protagonista priva di nome proprio, avvolta in una lunga vestaglia rosa (ma sotto, la veste scollata dello stesso colore ha l’eleganza di un abito da sera) si estenua nell’impossibile dialogo con l’uomo che continua ad abbandonarla. Perché all’altro capo della linea telefonica è presto evidente che non c’è nessuno – non c’è del resto nemmeno il filo del telefono. C’è la solitudine della donna. C’è la rivisitazione ossessiva del momento che precede il tentato suicidio che l’ha portata lì dentro. C’è la dissimulazione borghese che rende ancor più visibile l’introiezione di una colpa che solo un finale tragico può sanare. Ho deciso di essere forte, ripete. Lasciami parlare, è tutta colpa mia. Fino a quel ripetuto grido finale, ti amo ti amo, che anticipa di un attimo l’uragano di applausi che si riversa su Anna Caterina Antonacci.

    Si vira invece verso il nero nella Cavalleria rusticana che la scena di Carmine Maringola popola di strutture mobili che si compongono per alludere a luoghi diversi di un medesimo paesaggio. Il balcone da cui si affaccia Lola che ha di latti la cammisa: e nun me mporta si ce muoru accisu, dice la canzone dell’inizio, facilmente profetica. Le case che delimitano una ipotetica piazzetta. La chiesa che si profila sul fondo in un profluvio di simboli religiosi. Croci di ogni dimensione che calano dall’alto, proprio al momento del celebre intermezzo. Il ripetuto passaggio di un Cristo che trascina sulle spalle la propria croce sotto la sferza di un carnefice, proprio come in una sacra rappresentazione della Via crucis come ancora si usa soprattutto nei paesi del sud. È infatti il giorno di Pasqua. E da quella chiesa, che letteralmente si identifica con la comunità e i suoi riti, Santuzza (Carmen Topciu) si sente esclusa, tanto da non potervi più entrare.

    Sul melodramma di Mascagni pesa l’impronta verista che da Verga si è trasferita al libretto dell’opera, su cui una pigra tradizione ha steso strati oleografici di una Sicilia di maniera. Piuttosto che ignorarla, per andare da un’altra parte, Emma Dante ha scelto di ironizzarla. Con misura. Passa un carretto siciliano ma a trainarlo sono quattro cavalline coi pennacchi colorati che sgambettano in short. E da quel coro di uomini vestiti di nero e donne velate spunta una fila di ventagli multicolori a negare la diffusa luttuosità dell’ambiente circostante. La ribellione di Lola (Anastasia Boldyreva) si ferma a un paio di stivaletti punk e mamma Lucia (Claudia Marchi) si presenta piegata da un naturalistico mal di schiena.

    Foto di Rocco Casaluci

    A differenza che nella Voix humaine, gli uomini qui sono fisicamente presenti ma ugualmente irrilevanti. Puro simulacro del maschile. O piuttosto figure funzionali a che il dramma si compia, non è forse un caso che siano quasi indistinguibili l’uno dall’altro. Compare Alfio (Gezim Myshketa) fa schioccare la frusta, ma sai che bel mestiere è fare il carrettiere. E compare Turiddu (Marco Berti) si compiace per il vino ch’è sincero davanti alla lunga tavolata che s’è formata sulla scena ma poi corre dalla madre perché lo benedica, prima di prendersi a coltellate con quell’altro. Finisce così, nella maledizione irrimediabile della malapasqua, con le donne raggelate nel grido muto del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca che sta nella chiesa di Santa Maria della Vita, in Bologna. Ma i colori, quei rossi e gli azzurri delle vesti, sembrano piuttosto quelli di Pontormo e Rosso, la Visitazione di Carmignano, la Deposizione di Volterra. Come la spia di un sano e rivelatore manierismo.

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