• Telefoni e vecchi merletti. Enzo Moscato nello specchio di Copi

    Beata lei, si rispondeva un tempo alla spettatrice che all’uscita dal teatro poteva esclamare: Non ho capito niente! Si voleva dire che lì, a teatro, non è davvero necessario “capire” subito tutto. Ché anzi a cosa serve se è subito tutto chiaro, tutto ben spiegato alla luce del giorno, quello che conta è ciò che si fa largo un poco alla volta nella mente e continua a interrogare. E torna in mente leggendo quel che scrive Enzo Moscato a presentazione della sua nuova creazione: “Mi raccomando, non sforzatevi di capire ma piuttosto solo di perdervi e giocare nel puro non-sense!”

     

    Libidine violenta si intitola lo spettacolo dell’autore e attore napoletano presentato al Metastasio di Prato, e già qui si gioca a nascondino con il senso, giacché non a un incontrollato appetito sessuale si allude ma forse piuttosto (c’è da credere) alla spinta vitale cara alla teoria junghiana. Dunque libidine estetica che si consuma dentro la scrittura e si ricompone nella forma di un varietà delirante, un caleidoscopico gioco di specchi con l’altro. E non c’è da meravigliarsi dell’esito, visto che l’altro in cui Moscato torna a specchiarsi è Raúl Damonte in arte Copi, gran maestro di spaesamenti, argentino di Francia, disegnatore di fama e attore suo malgrado (anche una indescrivibile Madame nelle Bonnes di Genet con Adriana Asti e Manuela Kustermann…) però fedele all’autore, cioè a sé stesso, alle sue storie sbrindellate, capace di ghignare anche sulla visita inopportuna dell’aids che l’uccideva.

    Foto di Pepe Russo

    Moscato torna a tuffarsi nell’universo delirante evocato nel bellissimo Recidiva che vedemmo all’Arsenale veneziano, saranno passati più o meno trent’anni e la memoria non scolora. Torna a giocare con i topi e con i topoi, che non sai mai se il Popper di cui si parla sia un allucinogeno o il filosofo della società aperta, in una confusione di checche e infermiere pronte a tutto, di stupri goduti dal giardiniere, di tubi della doccia usati a mo’ di telefono… Dove come allora si fanno a pezzi i luoghi comuni, per ricomporne i frammenti in una nuova architettura dove tutto si tiene in equilibrio.

     

    Rivestiti i panni sbrilluccicanti dell’ambigua creatura che qui ha preso il nome familiare di Reci, impegnata scrivere un libro di memorie che non riesce a scrivere come il protagonista del Ballo delle checche, forse per questo vagheggiando un improbabile suicidio, l’artefice se ne sta issato in cima a un’impalcatura, circondato dai fogli che escono dalla sua macchina da scrivere. Infilzati su lunghi spilloni, serviti con un “Gradisca” dalla fedele Dolores, fatti piovere dall’alto sul palco.

    In basso, sulla scena disegnata da Luigi Ferrigno, sorta di bolgia infernale di fumi e bagliori di fuoco, divisa fra una vasca che funge da trasparente alcova e il frigo di un’altra pièce di Copi che fa da soglia luminosa con il mondo esterno ed è poi un vero e proprio magazzino delle apparizioni, lì si diceva prendono corpo i suoi ossessivi personaggi. I suoi fantasmi, bisognerebbe forse dire, in cui si proietta e si moltiplica. Programmaticamente eccessivi, orgogliosamente scostumati, impegnati in continue telefonate con una Signora Borgia o una Frau Hitler o guarda un po’ un Signor Jung (sono Giuseppe Affinito, Luciano Dell’Aglio, Tonia Filomena, Domenico Ingenito, Emilio Massa e Anita Mosca). Ecco infatti un trio di coloratissime drag queen che si lanciano sulle passerelle che si protendono dal proscenio per concionare in faccia agli spettatori. Ed è solo l’inizio del gioco dei travestimenti o dei travisamenti – non bisogna farsi confondere dalle maschere che indossano.

    Ma è un piccolo mondo antico quello che viene riportato alla luce in una sorta di scavo archeologico. Telefoni (a filo) e vecchi merletti. Che poi, più che merletti sono nastri e nastrini, fiocchi e fasce e tessuti a balze che si sovrappongono a false nudità, vertiginose acconciature, sontuose baroccherie allusive di un lusso derisorio. Per un tuffo all’indietro nel tempo, a dispetto del sentore di modernità liquida. E passi per l’Evita Peron e l’Alida Valli o la Silvana Mangano di Riso amaro che si tira dietro una chorus line di mondine scatenate a cantare Sciur padrun da li beli braghi bianchi fora li palanchi ch’anduma a cà. Ma chissà a quanti dirà ancora qualcosa l’Editore riunito più volte evocato o l’Abbe Lane che si era conosciuta solo in bianco e nero nella televisione degli albori. Cercate su wikipedia o youtube… A evocare quelle arcane apparizioni, a dare il ritmo alla rumba delle parole è la composita tessitura musicale, anch’essa d’epoca, dove gli Inti-Illimani di Donde está mi negra bailando si inseriscono fra Dalida e Marie Laforêt, Oh mamy, mamy blue e Mon amour mon ami quand je chante c’est pour toi, e poi musiche da film, non manca nemmeno la voce dell’artefice in un frammento dei suoi Embargos.

     

    L’ipotetico apocrifo remake si rivela allora piuttosto una variazione sull’impareggiabile finzione borgesiana del Pierre Menard autore del Chisciotte – non un altro Chisciotte ma proprio quello di Cervantes, parola per parola. Laddove la distanza temporale rende impossibile e del resto non cercata la replica, l’identificazione. Recidiva nasceva a partire dai materiali raccolti a poca distanza dalla morte di Copi. Questa più malinconica Libidine violenta (malinconica proprio per il sentimento del tempo passato) nello specchio di Copi mette in gioco piuttosto la partita fra l’essere inseguito e il cercare di nascondersi, di negarsi all’altro.

    Alla fine la vasca trasparente accoglierà la stessa Reci, discesa dal suo seggio. Nel segno di una resa? Libidine violenta dichiara la sua radicale estraneità allo spirito del tempo che predica il conformismo della correttezza politica. Non ha lezioni da impartire. Le denunce si presentano in questura, insegnavano i maestri, e l’arte non si fa con le buone intenzioni. O con i buoni sentimenti. (Quanto pessimo teatro ci stanno regalando buone intenzioni e buoni sentimenti). Però che sano piacere la sua anarchica follia, vero antidoto all’invasiva cultura del consenso che ha il suo emblema nei “like” delle reti sociali. Quel che conta è sempre lo spaesamento, l’essere comunque da un’altra parte.

     

     

    © Gianni Manzella

     

     

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