• Sii molto afroamericano. Clifford Owens, tra archivio e performance

    C’è, nella produzione di ogni performance artistica, una vocazione e un certo atletismo della fuga, che la rende perennemente refrattaria ad essere catturata nella fissità di un archivio o di un museo. Anthology, la mostra che MOMA PS1 dedica a Clifford Owens fino al prossimo 12 marzo, a New York, è tutta stretta nella contraddizione più radicale che la forma-performance contiene: la propensione alla diaspora e il desiderio di essere ricordata. Un vecchio regista teatrale l’ha detto molto bene: “Nella performance, come in amore, il soggetto è la sparizione”.

    • Clifford Owens, Anthology (Dave McKenzie) (detail). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays Clifford Owens, Anthology (Dave McKenzie) (detail). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays
    • Foto: Courtesy On Stellar Rays Foto: Courtesy On Stellar Rays
    • Clifford Owens, Anthology (Senga Nengudi). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays Clifford Owens, Anthology (Senga Nengudi). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays
    • Clifford Owens, Anthology (Nsenga Knight). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays Clifford Owens, Anthology (Nsenga Knight). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays
    • Clifford Owens, Anthology (Nsenga Knight). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays Clifford Owens, Anthology (Nsenga Knight). Performance still. Foto: Courtesy On Stellar Rays
         

    Se la performance dunque è, per sua natura, votata alla diaspora, tanto più essa lo è nella produzione degli artisti afro-americani, che salvo rare eccezioni non compaiono nelle genealogie consegnate al canone della storia e della critica d’arte. Quella di Owens al PS1 è in questo senso una doppia sfida: lavorare esclusivamente con artisti afro-americani come Kara Walker, William Pope.L, Rico Gatson, Sanford Biggers, Terry Adkins e molti altri; e al tempo stesso investigare i meccanismi di archiviazione della performance attraverso un assunto paradossale: creare performance che non siano prodotte per altro fine che per essere documentate. Performance autoarchivianti, per così dire, capaci di comporre un’Antologia ulteriore rispetto a quella assunta dalla storia, capaci di scavare nel canone un’altra lingua e altre immagini, di far vibrare un poco l’impianto di potere consolidato attorno ad alcune figure ricorrenti.

    Owens lavora così: chiede al gruppo di artisti afro-americani scelti di creare per lui delle partiture, ovvero delle istruzioni più o meno dettagliate di un’azione performativa. Nel corso dell’estate, in residenza al MOMA PS1, l’artista nel suo studio le sviluppa. Lo studio è aperto, chiunque visiti le mostre in corso nel museo può accedere allo spazio di lavoro di Owens e assistere al progredire  delle opere. Una volta terminate le prove, Owens comincia a documentare le performance attraverso diversi media: scrittura, fotografia, video, registrazioni audio. Si va così accumulando una quantità esorbitante di documentazione, che eccede la sua originaria vocazione (quella di essere “archivio” dell’azione live) per diventare a sua volta opera.

    Il materiale viene dunque organizzato ed esposto al pubblico secondo una modalità doppia: attraverso una mostra in cui vengono esposti i “resti” della performance, la memoria prodotta da Owens stesso, e attraverso le performance “originali” che per tre diverse occasioni, una volta al mese, l’artista riproduce live. Il pubblico si trova così di fronte, contemporaneamente, alla performance e alla sua memoria che, dato il carattere relazionale e il coinvolgimento essenziale dello spettatore in questi lavori, presenta in ciascuna occasione un andamento completamente diverso, a seconda delle reazioni e della dialettica che si sviluppa con gli spettatori nelle diverse circostanze.

    Mi soffermerò brevemente su una performance in particolare, per una certa eccezionalità che presenta in questa cornice. Una delle partiture, quella che Owens sostiene essere la più straordinaria, è stata scritta da William Pope.L, un artista di culto della scena afro-americana, che dagli anni Settanta denuncia incessantemente questioni di ordine razziale, di discriminazione sociale, di politiche economiche scellerate, sostenendo i movimenti del Black Power attraverso media diversi, principalmente per mezzo di performance ironiche e dissacranti realizzate perlopiù fuori dai circuiti deputati dell’arte: per strada, davanti alla sede di edifici bancari, in aula coi suoi studenti. Pope.L rientra in certo modo, in quanto vittima, nella denuncia che Owens indirizza contro la rimozione, nelle genealogie della performance, degli artisti neri.

    William Pope.L , alla richiesta di Owens di creare per lui una partitura, dopo aver riflettuto brevemente scrive su un foglietto un’unica istruzione: “Sii afro-americano. Sii molto afro-americano”. Date le premesse del lavoro di Owens – creare ex-novo un’antologia della performance prodotta da artisti neri – l’indicazione di Pope.L suona particolarmente dissacratoria, poiché mette in discussione la retorica stessa dell’operazione di Anthology.

    Cos’è una performance della blackness? Come è possibile definirla, rappresentarne l’essenza, senza cadere in un essenzialismo e nella costruzione fittizia di un’identità immobile e stereotipica? Com’è possibile non replicare mimeticamente, nel tentativo di sovvertirle, le schedature razziste?
    È in questo confronto tra Pope.L e Owens che si gioca la dialettica più affilata dell’intero lavoro: il tentativo di Owens di creare la genealogia, la storia, i gesti, le immagini, fino addirittura all’archivio della performance afro-americana nel tempo di Anthology e nello spazio del suo proprio corpo deflagra di fronte all’affermazione: “Sii molto afro-americano”, ovvero “metti in scena la retorica opposta e speculare del razzismo”. Owens questa sfida la raccoglie e la spartisce con lo spettatore. In piedi su un cornicione, su uno dei lati di una piccola sala di PS1, si rivolge al pubblico accalcato “Chi è innamorato di un nero faccia un passo avanti”, e prosegue chiedendo chi ami l’hip hop, il jazz, chi vorrebbe essere innamorato di un nero, chi è sposato con un nero, chi ha fatto sesso con un nero e così via.

    Si crea in questo modo, tra quanti rispondono positivamente alle sue domande, una piccola comunità coerente e divertita, fatta principalmente di donne di colore. Una comunità omogenea, che via via si separa da quella più ampia degli spettatori. Finché Owens scende tra il pubblico e si sdraia, schiena a terra. “Chi pensa che un uomo nero sia sessualmente dotato si avvicini e si sdrai su di me”.  Si fa silenzio, il pubblico che fino a quel momento aveva partecipato all’azione si immobilizza nell’imbarazzo. Alla fine, avanza un ragazzo. Anche lui afroamericano. Si sdraia su Owens, e probabilmente anche l’artista spartisce con noi, nell’attimo in cui questo gesto si realizza, un certo senso di epifania sottile e ironica. Ecco cosa vuol dire essere molto afroamericano: evocare lo stereotipo e lasciare che sia qualcun altro, un’altra manifestazione di quella stessa virilità del black man, a seppellirlo.

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