• Un ricordo di Ellen Stewart, La Mama

    Scrivere di Ellen Stewart è per me oggi un atto di memoria, che partecipa dell’affetto di una larga comunità. È un modo per depositare su una pagina il movimento di questo affetto e il racconto familiare attorno a cui oggi si raccoglie una celebrazione condivisa, un dolore condiviso.

    Il corpo della Mama, ieri mattina, è uscito di scena nell’East Village di New York, dopo novantuno anni di vita. Lo ha fatto lasciando dietro di sè il lungo tracciato di una storia, che infiniti racconti potrebbero narrare. È la storia di una donna che cinquant’anni fa decise di costruire un luogo – una serie di luoghi – dove il teatro potesse esistere prima di tutto come forma di incontro.
    E se è vero che ogni dolore, come scriveva Hanna Arendt, può essere reso sopportabile solo inscrivendolo nella narrazione di una storia (unica, improgettabile, frutto di azioni e parole che nel loro farsi divengono memorabili), è nel narrarsi a vicenda, ancora una volta, gli episodi di questa storia, che la larga comunità di affetti del La Mama Experimental Theatre Club oggi s’incontra, ricordando se stessa insieme al corpo di Ellen, spartendo il peso di questo dolore.

    Ho scritto molte volte di Ellen Stewart, nel corso degli ultimi sei anni; e non è mai stato così difficile trovare le giuste parole. Ho avuto il privilegio di incrociare il suo tracciato in molti luoghi, di condividere con lei molti amici, di imparare a conoscere le deliziose tonalità della sua voce di donna. Una voce che amava narrare di tutti gli amori che il La Mama aveva visto nascere, di tutti gli amori che avava visto finire; che poteva essere dura e infinatemente accogliente; e amara, curiosa, protettiva, maieutica. Devo deporre ogni distanza, nell’unire le mie parole al racconto di questa storia, oggi, accogliendola impastata di molti altri racconti e dell’eco di tutte le volte che ho sentito la voce di Ellen raccontarla, ogni volta come fosse la prima.
    Come in ogni racconto familiare, all’origine della narrazione del La Mama riposa un’immagine della memoria. È quella di un carretto, lo stesso che oggi figura come simbolo del La Mama E.T.C., assieme ad un campanello di bronzo. La storia vuole che questo carretto sia esso stesso il frutto di un incontro affettivo, quello con un uomo ricordato come Abraham ‘Papa’ Diamond, un incontro che ha il sapore di un presagio della storia a venire.

    Ellen Stewart era giunta a New York negli anni Cinquanta, con l’intenzione di iscriversi a una scuola di moda e diventare stilista, opportunità che le era preclusa a Chicago, per via del colore della sua pelle. Per guadagnare i soldi che le avrebbero permesso di studiare, aveva trovato lavoro come facchino presso il negozio Sacks Fifth Avenue, dove ogni giorno la giovane donna si recava indossando un grembiule blu sopra il proprio vestito. Risale a questi primi anni newyorkesi l’incontro con Diamond, venditore ambulante di origine ebrea, immigrato a New York all’inizio del secolo e stabilitosi con il suo carretto a commerciare stoffe su Orchard Street, nel Lower East Side. La scelta di Diamond – così vuole la storia – era stata un incoraggiamento per un nutrito gruppo di immgirati europei residenti nel Lower East Side, che, seguendo il suo esempio, avevano dato vita a un vivace mercato su Orchard Street, arrivando nel giro di pochi anni a guadagnare i soldi necessari per poter acquistare i negozi di fronte ai quali, per lungo tempo, avevano posizionato i loro carretti.

    È su Orchard Street che, una domenica, Ellen Stewart conobbe Abraham Diamond e con lui ebbe modo di intessere un sodalizio strettissimo, un rapporto quasi filiale. Ogni domenica Ellen Stewart si recava su Orchard Street e riceveva da Diamond un pezzo di stoffa, con cui durante la settimana ella avrebbe potuto esercitarsi a realizzare le sue creazioni di moda. La domenica successiva, sarebbe tornata da Diamond a mostrargli il vestito che aveva realizzato e ricevere in dono una nuova stoffa. Fino a che un giorno – così continua la storia – durante un momento di pausa pranzo a Sacks Fifth Avenue, Stewart si tolse di dosso il consueto grembiule blu e lasciò intravedere uno dei vestiti da lei realizzati, attirando l’attenzione di Edith Lances, che in breve promosse la giovane donna al ruolo di Executive Designer per la sua casa di moda. Nel giro di pochissimo, Stewart intraprese una carriera di successo nel mondo della moda, arrivando a collaborare con prestigiose firme internazionali. Nonostante questo, nella New York degli anni Cinquanta non molti erano disposti ad accettare di lavorare alle dipendenze di una donna afro-americana: il primo gruppo di sarte che fu impiegato nel laboratorio diretto da Stewart fu composto di quindici donne immigrate dall’Europa e sopravvissute ai campi di concentramento, unite nella comune solitudine e in una memoria terrorizzata. Furono queste donne, per prime, a chiamare Stewart ‘Mama’, nonostante ella fosse ancora giovanissima.

    Secondo la storia, qualche anno più tardi, mentre Stewart si trovava nella città di Tangeri rimettendosi da un malessere fisico, le sembrò di percepire distintamente l’immagine di Abraham Diamond, morto diversi anni prima, che le indicava con semplicità una nuova direzione da percorrere: tornare a New York e costruire il suo ‘carretto’, affinchè altri potessero realizzare i propri desideri salendoci su, mentre lei avrebbe continuato a spingerlo. È così che pochi giorni dopo, nell’autunno del 1961, Stewart tornò a New York, trovò uno scantinato vuoto al 321 East 9th Street e lì diede inizio al Café La Mama. Durante il giorno Stewart avrebbe utilizzato quello spazio come boutique, per poter finanziare le attività che si sarebbero svolte la sera: attività, a quel tempo, ancora incerte, che poco avevano a che fare con un mestiere del teatro, ma erano intrise piuttosto di un desiderio di teatro, che eccedeva gli spazi concessi dalla metropoli ed esisteva solo in potenza, come possibilità di sperimentazione amatoriale.

    Poco dopo, il fermento del Café divenne così intenso che Stewart abbandonò totalmente la boutique. Attorno a Stewart si raccolse una comunità eterogenea di artisti e spettatori, in cui la distinzione tra gli uni e gli altri era quasi impossibile. Nel Café La Mama vennero messi in scena molti spettacoli, si accumularono sui muri ritagli di giornale, foto, memorabilia. Si bevve caffè, si fumarono sigarette e inventarono travestimenti. Si raccontarono storie che ancora vengono tramandate. Ogni sera, Ellen Stewart compariva sul piccolissimo palcoscenico addossato ai tavoli della caffetteria e faceva suonare un campanello, interrompendo le tante conversazioni che erano in corso tra i presenti e annunciando lo spettacolo che stava per iniziare: “Good evening, ladies and gentlemen, and welcome to La Mama, dedicated to the playwright and to all aspects of the theater”.

    Dal piccolo spazio su East 9th Street, il Mama ha continuato a spostarsi, disegnando una mappa sempre più ampia: dai quartieri dell’East Village e del Lower East Side di New York, dove ha costituito uno del luoghi centrali per lo sviluppo della scena Off-Off Broadway, il La Mama si è spinto oltreoceano, producendo filiazioni, influenze, ancora nuove forme di incontro. Negli anni Ottanta ha raggiunto stabilmente il territorio italiano, dove Stewart ha deciso di fondare il La Mama Umbria International, una residenza internazionale per artisti nella campagna spoletina, situata in un ex-monastero.

    Molti nomi si sono avvicendati sui programmi e i cartelloni del suo teatro: alcuni divenuti poi famosi, altri dimenticati dalla storiografia. Ma quei cartelloni hanno ospitato lo sviluppo di mezzo secolo di teatro internazionale, nelle cui vicende si sono intrecciate  le arti visive, la musica, la danza, la poesia, senza soluzione di continuità. Ellen non ha mai voluto ricordarne alcuni invece di altri: quando le veniva chiesto di elencare gli spettacoli più significativi presentati nel teatro, scuoteva la testa, ripetendo: “You see, I can’t name only some. La Mama is a lot of people”.

    Nel corso degli anni si sono spostati oggetti, persone, modi di dire, consuetudini scaramantiche. Nessuno di coloro che hanno conosciuto Ellen indosserà più un indumento verde nei giorni di spettacolo. Nessuno dimenticherà il sapore del cibo condiviso sotto il porticato della residenza italiana del La Mama Umbria. Nessuno potrà ricordare con precisione la provenienza di tutti gli oggetti che sono accumulati e sovrapposti sulle pareti dei molti luoghi in cui il La Mama si articola oggi. Ma, con certezza, molte persone custodiscono la possibilità di ricordare queste storie, che verranno riattivate tutte le volte che gli incontri – quegli incontri che Ellen considerava il sale del proprio teatro – torneranno ad avere luogo.

    Nel 2000, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Ellen Stewart nella città di Spoleto, Claudio Meldolesi ha definito Stewart una “donna-teatro”, mutuando l’efficace espressione utilizzata da Jean-Louis Barrault con riferimento ad Antonin Artaud. Con questa bella definizione lo studioso celebrava il modo in cui Stewart ha indissolubilmente saldato la propria vita al destino del teatro La Mama, arrivando ad assumere un’identità pubblica che di fatto “remanifesta in se stessa il teatro”. Un teatro che prima di essere un mestiere, ben prima di essere un prodotto, è innanzitutto un desiderio, il desiderio di circoscrivere uno spazio in cui è possibile che degli artisti e degli spettatori si incontrino, bevano caffè, accumulino consuetudini, forme di riconoscimento. Un teatro che sia prima di tutto un luogo familiare, dove si sperimenti la possibilità di partecipare a una solidarietà e condividere un immaginario che in tutto assomigliano a una forma di parentela. Una vera e propria parentela pratica, dove il futuro è reso possibile non dalla riproduzione biologica, né dalla consanguineità; ma dalla continua invenzione di forme di rinnovo del proprio presente. È questo, prima di ogni altro successo, che Ellen Stewart per tutta la vita ha tenacemente perseguito: l’invenzione di forme sempre nuove per prendersi cura di un desiderio di teatro, che è prima di tutto l’incontro tra una comunità di uomini e donne e il piacere memorabile che questo incontro procura.
    Nel condividere questo racconto, ancora una volta, oggi, vogliamo partecipare al profondo lutto che unisce la larga comunità affettiva che Ellen Stewart ha attirato attorno a sé, nell’ampio tracciato della sua storia. Vogliamo celebrare il passaggio di questo carretto e i desideri che ha contribuito a esprimere, quelli che ha saputo realizzare, quelli che ancora custodisce. Vogliamo raccogliere l’eredità di un’idea di teatro che non si esaurisce nel corso di una vita, di un teatro che sa inventare le proprie forme di rinnovo e il proprio lessico familiare.

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