• Nightshade, un commiato in danza dallo striptease

    Dal fumo che si spande sul palco, colorato di rosso e verde, si solleva prima un braccio, poi due gambe nude che si incrociano mostrando ai piedi un paio di domestiche babbucce. Distesa sulla schiena la ragazza si spoglia lentamente, nell’oscurità della scena, accompagnata dalla musica d’occasione suonata da una formazione da camera di orchestrali schierati in una nicchia ai due lati del proscenio. Quando finisce il suo numero, si alza e se ne va quasi di corsa. Tutto qui? Ma non si è visto niente, fra i fumi e l’ombra e il buio. Non è certo il più coinvolgente, il primo dei sette pezzi che compongono Nightshade, la creazione collettiva del teatro Victoria di Gent (l’ensemble fiammingo che ci regalò l’indimenticabile Bernadetije di Alain Platel) presentata al Palladium da Romaeuropa festival. E però è una buona introduzione al suo tema conduttore, la negazione della visione (o la visione interrotta) che si cela dietro l’ombra notturna del titolo.

    nightshade vera mantero

    Sette coreografi, e alcuni di primissimo piano, sono stati chiamati a interpretare l’arte desueta dello striptease. Ciascuno di loro lavorando con una (in un caso, uno) spogliarellista professionale, cioè ribaltando il ruolo dell’interprete con un innesto di verità. Sia pure verità ambigua, giacché l’autenticità dell’interprete rimanda comunque a una finzione, a una parte giocata nella vita. Ma per capire cos’è Nightshade bisogna intanto mettere da parte gli intenti dichiarati dai promotori, come l’idea di elevare al rango di arte un lavoro notturno fatto di sesso, denaro e locali malfamati. Idea buona magari per vendere lo spettacolo, strizzando contemporaneamente l’occhio a un pubblico tentato da promesse di voyeurismo.

    Nightshade, si potrebbe dire invece, è un commiato dallo striptease. L’addio, dietro l’intenzione dell’omaggio neppure tanto nostalgico, a un mondo passato. Un genere trascurato anche da una generazione post-oscena che pure si era data molto da fare intorno a pratiche basse da utilizzare come armi di rivolta (ma a una spogliarellista rendeva onore il nome d’arte della Marion D’Amburgo dell’amato Carrozzone ante Magazzini degli anni Settanta). Oggi malamente riprodotto dalle frettolose sexy girls della porta accanto delle reti televisive.

    Come un film a episodi Nightshade sconta la frammentarietà insita nel progetto, il livello non omogeneo degli artisti coinvolti e dunque una sorta di avanzare a scatti del lavoro, la stessa misura breve di ciascun solo che lascia a volte soltanto intravedere una possibilità di sviluppo drammaturgico. E tuttavia è proprio la successione dei sette pezzi facili a dare progressivamente il senso del lavoro. Dove conta evidentemente la diversità dei toni e dei colori. Ci sono passaggi molto chiacchierati, come quelli inscenati da Vera Mantero e da Wim Vandekeybus – e vince la coreografa portoghese che si rifà al burlesque anni Trenta attraverso la strabordante fisicità di Delphine Clairet che entra in scena coperta di palloncini da far scoppiare e moraleggia mentre si spoglia con una spugna degli ultimi indumenti dipinti sulla pelle.

    C’è l’horror barocco di Claudia Triozzi che inquadra l’interprete nell’ovale di una cornice dorata e cela il suo corpo sotto proiezioni colorate, portando all’estremo l’impossibile visione corporea, di cui solo nel finale si rivela allo sguardo una inequivocabile rotondità. E c’è il disturbante incubo di Caterina Sagna che fa arrivare dalla platea una ragazzetta qualunque, scarponcini e frangetta bionda, che si introduce in un buco come Alice alla ricerca del paese delle meraviglie ma è vittima del sipario che la schiaccia a terra, le taglia la testa, e in quella costrittiva posizione deve faticosamente spogliarsi, per restare poi immobile nel biancore di una immagine da obitorio, come una Jenny Saville depurata del sangue.

    nightshade platel 3C’è soprattutto almeno un momento di grande teatro, grazie alla genialità profusa da Alain Platel anche in una prova minore. La sua Caroline Lemaire, di una bellezza emozionante, si staglia in una sorta di kimono contro un fondale rosso, con posate lentezze alla Bob Wilson. Tacchi altissimi e labbra colore rosso fuoco. Va avanti e indietro lungo un’unica linea orizzontale, a filo di sipario, mentre si spoglia con algida indifferenza sulle note di Je t’aime moi non plus, private però dei sospiri di Jane B. che ne avevano decretato la censura in anni di minore permissività, sicché tutto si gioca ancora una volta su un’assenza. Dentro il riquadro di dimensioni variabile creato dal mobile sipario che l’insegue e a tratti ne ritaglia l’immagine, fino a mostrarne solo i piedi dentro una bassa finestra, al momento della caduta dell’ultimo indumento. My favorite things, canticchia, mentre finalmente il sesso maschile proiettato da un lato mostra un segno di vitalità. Timida risposta allo scacco del desiderio.